Due americani a Roma

Se nel calcio ci fosse una logica, diremmo che i Friedkin, Dan e Ryan, stanno preparando il loro addio alla Roma. Via De Rossi, via Lina Souloukou che tecnicamente si è dimessa ma che non aveva più la fiducia dei proprietari, Ghisolfi scavalcato, rottura totale con un ambiente difficile come lo sono tanti altri ma con sue peculiarità locali. Che non occorre essere romani di nascita, come De Rossi, per capire: per informazioni chiedere a Mourinho. Non ci riferiamo alla minacce alla Soukoulou, roba da squilibrati in qualsiasi contesto. E adesso? Sul campo avanti con un allenatore come Juric, bravo ma che era la quarta scelta, e con una squadra che per valore dei singoli è assolutamente da corsa, pur essendo stata messa insieme in ritardo. Contro l'Udinese la reazione dei giocatori era comunque scontata, visto il clima montante contro alcuni di loro. Fuori dal campo navigazione a vista, perché non occorre grande memoria per ricordare che fino a due mesi fa i Friedkin erano vicinissimi all’acquisto dell’Everton. 

L’inizio altalenante delle pretendenti allo scudetto ha dato al Torino un primato solitario in classifica che mancava da 47 anni, dai tempi della squadra di Pulici e Graziani che con lo scudetto sul petto disputò un’altra stagione clamorosa, arrivando secondo di un punto dietro alla Juventus al primo anno di Trapattoni. Decisamente altri tempi, visto che in 19 anni e rotti di Cairo il miglior piazzamento del Torino in Serie A è stato il settimo posto. E che a Vanoli è stata consegnata una rosa da decimo posto, più o meno quella che aveva in mano Juric. A proposito, proprio le storie di Vanoli e Juric dimostrano che tanti allenatori bravi hanno bisogno di cambiare aria per trovare nuovi stimoli, farsi ascoltare ed essere credibili. Non vale soltanto per Conte, quindi.

L’Inter campione d’Italia ha perso male un derby giocato male e non per motivi tattici, visto che fino a ieri l’essere sempre uguali a se stessi era descritta come una qualità. A prescindere dal risultato è la prima partita importante della sua gestione interista, arrivata al quarto anno, che Simone Inzaghi non riesce a giocarsi con l’approccio giusto, anche se in troppi (Mkhtarian, Calhanoglu in particolare) sono stati nella loro versione peggiore e l’astinenza da gol, ma non da assist, di Lautaro Martinez è un grosso problema. Il tasto-scusa 'Pensiamo solo alla Champions' non è da schiacciare, prima di tutto perché ci sono diverse squadre più attrezzate per vincerle e poi perché è quasi impossibile arrivare peggio che ventiquattresimi. Ha vinto l’azzardo calcolato di Fonseca, un 4-2-4 che gli ha salvato la panchina ancora per un po’ (non si possono dimenticare gli ultimi giorni, quando stando alle veline delle varie correnti societarie sembrava che nessun dirigente lo avesse scelto) e che si è tradotto in meno gol di quanti il Milan avrebbe meritato.  

Lo 0-0 di Juventus-Napoli, da archiviare nel file ‘Meglio due feriti che un morto’, ha messo Vlahovic in copertina ma se la squadra di Thiago Motta ha fatto un solo tiro in porta nonostante il 65% di possesso palla ed il doppio dei passaggi rispetto al Napoli la colpa non può essere soltanto del serbo, che in certi giudizi sconta anche il fatto di essere l’ultimo ricordo, a livello di ingaggi, della Juventus di Andrea Agnelli. Thiago Motta non è tatticamemnte uguale ad Allegri, pur essendo attento come lui alla fase difensiva, ma senza centrocampisti portati all’assist (l’utilizzo limitato di Douglas Luiz, titolare solo a Empoli, è un mistero) mandare in porta Vlahovic o chiunque altro rimane un problema. La fortuna di Motta è però quella di essere percepito come uno da progetto, in un campionato che oltretutto non pare nemmeno iniziato. 

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