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I rimpianti da commissario tecnico, il lungo addio di Cairo e la noia da SuperChampions...
Roberto Mancini compie sessant’anni ma è ben lontano dalla pensione, anche se l’essere considerato dagli addetti ai lavori e forse anche da sé stesso uno ‘da nazionali’ non è esattamente un complimento. Dopo il clamoroso addio all’Italia nell’agosto del 2023 e quello stra-annunciato all’Arabia Saudita, quale futuro per un uomo divisivo sia da giocatore sia da allenatore? La Roma post-Juric è stata soltanto uno scenario, ma lui non sarebbe stato contrario, in Premier League la sua immagine è ancora al top, nel Terzo Mondo calcistico e non solo calcistico saremmo poi a livello di divinità. Chi conosce Mancini e ne sa interpretare la volubilità sostiene che lui ormai si veda soltanto in Italia, a prescindere dai soldi che ha per generazioni di Mancini e che raramente lo hanno guidato nelle decisioni. Visto che la Nazionale, la sua ferita mai rimarginata fin da quel sogno che per qualche giorno gli fece cullare Bearzot nella primavera del 1982, l’ha guidata per uno stipendio che era la metà di quelli di Lippi e Conte, molto meno di quello di Prandelli e addirittura meno di quello che prende oggi Spalletti. Un ritorno in azzurro fra un paio d'anni sarebbe oltre il fantacalcio, non per motivi di età (Spalletti ha 65 anni) o tecnici (anzi), ma per la probabile riconferma di Gravina alla testa della FIGC e per il possibile tramonto della stella di Malagò.
Che i tifosi del Torino contestino Urbano Cairo non è una novità, come lo è invece che Cairo stesso ormai apertamente si dica disposto a passare la mano dopo 19 anni di discreta gestione, senza mai aver capito lo spirito di un Torino di cui del resto nemmeno è tifoso (il sogno da wannabe Berlusconi, destinato a rimanere proibito, era il Milan ma adesso siamo su cifre improponibili). Certo per questo club, che usando il lodo Petrucci gli fu di fatto regalato dall’allora sindaco di Torino Chiamparino, non si è mai svenato: guardando soltanto le ricapitalizzazioni siamo a circa 4 milioni l’anno. Red Bull, arabi o fantomatiche cordate difficilmente farebbero peggio, a livello di ambizioni. Poi non è che arrivi Klopp, vinca tutti i derby e in pochi mesi costruisca un Torino degno di quello di Superga. Però voler vincere, e non vincere, è l’unica cosa che conta. Certo gli addii troppo lunghi non fanno bene alla parte sportiva dei club.
Il megagirone unico a 36 di Champions League, con classifiche da mal di testa, è decisamente più noioso dei gironi a quattro dove spesso anche i grandi club rischiavano di mancare la qualificazione alla fase a eliminazione diretta. I dati di Inter e Milan, con una media spettatori significativamente più bassa rispetto al campionato e della stessa Champions dell’anno scorso, e certo non per il livello tecnico, dicono che l’inflazione di partite (è chiaro che con lo schemino attuale le 8 sicure diventeranno in futuro 10, 12, e così via) fa aumentare il totale degli incassi ma porta anche a una certa disaffezione. Tutti sanno che si inizierà a fare sul serio quando rimarranno 24 squadre, con il playoff e poi gli ottavi di finale, ma tutti ovviamente (a partire dai media) hanno interesse nel pompare una manifestazione che non è la Superlega di soli pesi massimi, quella che Florentino Perez ancora sogna, ma non è nemmeno qualcosa di legato al diritto sportivo, visti i posti assicurati ai singoli campionati ed il fatto che la stagione regolare conti pochissimo.
stefano@indiscreto.net
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