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La doppia eliminazione del Milan, il 2025 di Gasperini e la fine della Serie C
Facile dire che sarebbe stato meglio prendere i 40 milioni offerti dal Como per Theo Hernandez, forse anche giusto. Ma l’uscita del Milan dalla Champions League ha la faccia di Sergio Conceiçao. Non perché lo abbia detto il diretto interessato, ma perché è un’eliminazione che il club ha fatto di tutto per evitare, con un mercato di gennaio di alto livello, comunque il migliore possibile, liberandosi dei giocatori messi nel mirino dall’allenatore portoghese, da Calabria a Morata a Bennacer, o non considerati come Okafor, e acquistando come nessun altro in Italia, a partire da Gimenez tolto proprio al Feyenoord prima di questi spareggi. Insomma, Cardinale è troppo lontano, Ibrahimovic è troppo vicino, non c’è un vero direttore sportivo da mesi, tutto quello che vogliamo, con il senno di prima e di poi, ma al di là dell’allenatore a interim il Feyenoord non vale una squadra italiana da metà classifica, l'Udinese o il Torino della situazione. E contro questa squadra Conceiçao ha sbagliato totalmente l’atteggiamento all’andata, mentre al ritorno ha meno da imputarsi, viste le situazioni pericolose create nel primo tempo dai supposti Fab Four. In fondo anche la sostituzione di Gimenez, che si era fatto male, con Fofana aveva un senso: difendere il risultato che tanto prima o poi un gol sarebbe arrivato. In campionato il Milan sta andando a un buon ritmo, pur brillando poco, ma le ultime notizie dal fronte del ranking dicono che non ci sarà il quinto posto da Champions e quindi questa eliminazione per il Milan potrebbe valere fino al 2026. Alla fine, vista anche la brevità della parte garantita del suo contratto, Conceiçao è a interim non meno di Bosschaart. La maggior parte dei meriti e delle colpe è dei dirigenti, ma in concreto il Milan a disposizione di Conceiçao non doveva uscire di scena così.
Contro il Bruges l’Atalanta non ha invece sbagliato atteggiamento, ma il prodotto è lo stesso. La differenza è che se il Milan era stato un po’ rilanciato dalla Supercoppa la squadra di Gasperini invece è per certi versi finita a Riad, con quella formazione un po’ spocchiosa messa in campo nella semifinale con l’Inter, come se l’Atalanta vincesse una Supercoppa all’anno. Da lì non si può dire che ci sia stato un crollo fisico, ma la tensione è calata e tolte le classiche asfaltate gasperiniane, tipo i due 5-0 allo Sturm Graz e al Verona, l’ultimo mese e mezzo è stato pieno di occasioni perse, passando dalla testa della classifica a un terzo posto a 5 punti dal Napoli, fino a questa delusione europea. Un’eliminazione strana e concretizzatasi nel proprio stadio, come quella di 4 anni fa con il Villarreal, che non ridimensiona il progetto Atalanta ma anzi lo mette nella sua giusta prospettiva: una realtà media, l’ottava squadra italiana per monte ingaggi lordo, che grazie all’organizzazione e un allenatore non simpatico a molti addetti ai lavori (basti vedere i tecnici mediocri ingaggiati dai grandi club negli ultimi 5 anni) ha dato lezioni a tanti. Certo non è stata eliminata dal Real Madrid.
I casi di Taranto e Turris, che comunque vadano a finire hanno da mesi falsato il girone C della Serie C, hanno spinto di nuovo Gravina a parlare di riforme, che nel linguaggio felpato della politica sportiva significano riduzione della squadre del terzo livello del calcio italiano, dalle 60 attuali a non più di 40, divise in due gironi. Uno scenario che ovviamente non piace alla Serie C attuale, il cui presidente Matteo Marani ha in mente altri cambiamenti (il più interessante il salary cap), e meno che mai ai calciatori che vedrebbero svanire centinaia di posti di lavoro, per quanto in certe realtà lavoro non sempre significhi stipendio. Di certo la C non è stata rivitalizzata dalle seconde squadre (ad Atalanta, Milan e Juventus si aggiungerà l’Inter), che l’hanno interpretata come un plusvalenzificio e che non hanno nemmeno dato grandi riscontri. Certo il vero pensiero di Gravina, espresso già qualche anno fa, è più radicale e interessante: tre livelli di professionismo non hanno comunque senso, a prescindere dal numero di squadre e dal mecenatismo: meglio una Serie A di élite a 18 o 16 squadre, e una immensa Serie B (da ribattezzare, per venderla meglio) nata dalla fusione di B e C, con squadre che rispondano a criteri molto stringenti. In ogni caso non si capisce perché il professionismo nel calcio, o in qualsiasi altra attività, dovrebbe essere un diritto se non è sostenuto e alimentato da un mercato, da un pubblico, da un senso.
stefano@indiscreto.net
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