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Una stagione difficile, la domanda di Ranieri, il ritorno di Ibrahimovic e la vita di Dirceu
L’esclusione di Nicolò Zaniolo dalle ultime convocazioni della Nazionale non ha fatto notizia, nonostante il ridotto numero di talenti italiani e nonostante all’inizio della sua gestione Spalletti puntasse su di lui, mettendolo in campo al posto di Politano contro la Macedonia per poi schierarlo titolare contro l’Ucraina, da attaccante di destra in un 4-3-3. E per Euro 2024 pensava ancora a Zaniolo come a un giocatore importante, prima che si infortunasse gravemente. Da allora l’azzurro l’ha annusato soltanto una volta, con Israele, ma senza scendere in campo. Fiorentina-Atalanta sintetizza bene la situazione di Zaniolo: Palladino lo fa giocare pochissimo e prima di lui Gasperini in 5 mesi di Atalanta lo ha messo dall’inizio soltanto una (!) volta, mentre il Galatasaray sta alla finestra. Nessuno, nemmeno lui, sa più quale sia il ruolo di Zaniolo, va bene. Ma qualcosa comunque non torna, perché il club viola ha pagato 3,2 milioni per 4 mesi di prestito di una riserva, cosa senza senso se non si puntasse su di lui per il futuro. A meno che non sia una strategia per trattare sul prezzo del riscatto (che sarebbe obbligatorio con il 60% delle presenze, con presenze da almeno 30 minuti, traguardo ormai impossibile), fissato in 17,5 milioni, visto che lui a Firenze si trova bene e non soltanto perché ci ha fatto 6 anni di settore giovanile. Al di là di queste schermaglie finora carriera alla Balotelli, anche se Balotelli partiva da un livello molto più alto e ci ha messo quindi più anni per scomparire. Ma una scommessa sullo Zaniolo di 25 anni si può ancora fare e pensiamo che la Fiorentina la farà. Tanti discorsi sulla taglia fisica che mancherebbe agli azzurri (poi non è vero, basta misurarli) impongono di credere ancora in Zaniolo.
Quale presidente americano parla? La domanda retorica di Claudio Ranieri, riguardante l’assenza mediatica (e non soltanto) dei Friedkin in Italia, ha evidenziato il tratto comune delle nuove proprietà nella Serie A odierna, con poche eccezioni (una è senz’altro Joey Saputo, che a Bologna ci abita e comunque è canadese). I presidenti, o i proprietari, statunitensi sono strutturalmente diversi non soltanto dai ‘nostri’ presidenti del passato, ma anche dagli odierni De Laurentiis, Lotito, Cairo, eccetera, fino ad arrivare, scendendo di due categorie, ad Antonini: tutta gente che nel bene e nel male ha una faccia, che mostra quasi quotidianamente. Non significa che gli italiani siano tifosi della propria squadra (fra l’altro nessuno dei 4 esempi citati nasce come tifoso del club di cui ora è proprietario) e quindi in un certo senso migliori degli stranieri, e nemmeno che si possa mettere in atto un migliore controllo sociale, pensando a Tanzi, Cecchi Gori, Cimminelli e mille altri esempi. Detto che ai tifosi importa soltanto di avere una squadra credibile, il sospetto è che il problema sia soprattutto di alcuni giornalisti, costretti a inventarsi i fantascenari che hanno fatto stizzire Ranieri o, perché in questo gli americani sono bravi, farsi imbeccare e imboccare dalle veline di mega-agenzie di comunicazione.
A proposito di comunicazione. Ibrahimovic è tornato a Milanello, dopo tre settimane di assenza non solo dal campo, visto che formalmente nemmeno ci dovrebbe andare (anche se in tempi non lontani diceva “Il boss sono io”), ma anche dai discorsi che contano per il futuro del Milan, senza mettersi a fare giochi di parole sul Milan Futuro che rappresenta il vero disastro dell’Ibrahimovic dirigente, o senior advisor che dir si voglia. Paolo Maldini rimane l’ultimo caso di successo di grande campione diventato bravo dirigente di club (non di federazione o comunque di posti dove non bisogna vincere), intendiamo dirigente e non figurina di rappresentanza per i tifosi, non soltanto nel Milan ma anche in tutta la Serie A. Per trovarne prima di lui bisogna risalire a Boniperti. Gli altri che hanno provato a uscire dallo status di figurina hanno fallito, a volte per l'invidia del presidente pagante (pensiamo a Juliano), in un mestiere ancora più difficile di quello dell’allenatore.
Il dopo-calcio è difficile per tutti, ma per Dirceu non è mai iniziato visto che quando nel 1995 morì in un incidente stradale, a 43 anni, non si era davvero ritirato e viveva di piccoli contratti qua e là. Il fortissimo brasiliano, stella di un calcio italiano in cui uno da tre Mondiali con la Selecão giocava nella provincia italiana, ci viene in mente per la sua biografia appena uscita, Dirceu per sempre, scritta da Enzo Palladini ed emozionante per tutti noi che abbiamo vissuto quell'epoca, forse anche per chi non l'ha vissuta e rimane stupito da come anche i campioni fino agli anni Novanta non avessero filtri o barriere nei confronti del mondo reale (e non sempre era un bene, vedere Maradona), e fossero in definitiva più umani anche se il discorso può apparire boomeristico. Il Verona di Bagnoli due stagioni prima dello scudetto, il Napoli una stagione prima di Maradona, l'Ascoli, il Como, l'Avellino, ma anche l'Ebolitana e lo Sporting Benevento, senza dimenticare il calcetto a Bologna e Ancona: sempre forte ma, Brasile escluso, quasi mai al posto giusto nel momento giusto. Come quella maledetta sera a Rio.
stefano@indiscreto.net
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