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Uruguay 1930, l'inizio del sogno

Uruguay 1930, l'inizio del sogno

Il 30 luglio di 90 anni fa a Montevideo le due migliori squadre del decennio precedente, divise da una rivalità epica, si affrontarono nella finale della neonata Coppa del Mondo... 

29 luglio 2020

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Il calcio ha avuto il suo primo campione del mondo propriamente detto il 30 luglio di 90 anni fa, a Montevideo. Fra l’altro quell’Uruguay-Argentina è rimasto l’unico caso nella storia in cui la finale sia stata la migliore partita del torneo: la più spettacolare, quella con il maggior numero di campioni del tempo, quella con le squadre più meritevoli. Che poi abbia vinto la squadra di casa, come altre volte (Italia 1934, Inghilterra 1966, Germania Ovest 1974, Argentina 1978, Francia 1998) sarebbe poi successo, non sembrò nell'occasione scandaloso.

Le due squadre che quel giorno si affrontarono al Centenario, terminato (anzi, non terminato) di costruire in extremis, erano davvero state le migliori degli anni Venti: l’Uruguay era stato campione olimpico a Parigi 1924 e ad Amsterdam 1928, l’Argentina aveva vinto le ultime due edizioni del campionato sudamericano, cioè quello che oggi è la Copa America. La loro rivalità era alimentata non soltanto dalla vicinanza geografica, ma anche dal numero assurdo di sfide incrociate in tornei di cui oggi è difficile decifrare l’importanza senza cadere nella trappola del passato che rende tutto migliore, eccezionale, leggendario. Certo la Copa Newton e soprattutto la Copa Lipton sono arrivate quasi ai giorni nostri, ma come amichevoli o poco più.

L’Uruguay viene di default descritto come una squadra grintosa, se non di picchiatori, ma la sua versione di quegli anni era ben diversa ed era anzi basata su di un attacco eccezionale che come elemento più carismatico aveva l’ormai anziano Hector Scarone, che qualche tempo più tardi avrebbe mostrato gli ultimi lampi di classe nell’Inter e nel Palermo. L’Argentina aveva caratteristiche molto simili ed una delle stelle del Mondiale, Guillermo Stabile (futuro genoano e napoletano), addirittura era partito come riserva. Come spesso accadeva, i leader emotivi erano però mediani e gente dura: per l'Uruguay Andrade, 'La Maravilla Negra', schiarato sul centro-destra, per l'Argentina il più centrale Luis Monti, non ancora naturalizzato italiano per l'Italia di Pozzo. 

Inutile copiare descrizioni di azioni da altri che a loro volta hanno copiato da altri, all'inseguimento di uno storytelling cialtrone: di quella partita non esistono nemmeno filmati decenti ed è molto strano perché comunque nel 1930 qualcosa si sarebbe potuto organizzare. Di certo, perché così avevano sempre fatto, entrambe le squadre giocarono con il modulo a piramide, il primo schema del calcio moderno ad avere avuto una diffusione internazionale. La cosiddetta piramide di Cambridge altro non era, tradotto in numeri di oggi, che un 2-3-5. Antenata del Metodo, la Piramide ci regalò comunque le denominazioni di tanti ruoli, alcune delle quali usate ancora oggi: le ali, gli interni, il centravanti. Restringendo il discorso all’Italia, i due difensori vennero definiti terzini in quanto facenti parte della terza linea, con la seconda che era quella dei mediani e la prima quella degli attaccanti. La finale mondiale del 1930 fu l’ultima partita importante di questo ‘vecchio’ calcio, e anche l’ultima finale a non avere in campo nemmeno una squadra europea.

Secondo i resoconti dei giornali argentini l’Albiceleste mancò un’occasione enorme per vincere il suo primo Mondiale 48 anni prima rispetto al 1978 e la cosa è oggettiva visto che sul 2-1 in suo favore l’Argentina mancò il gol della sicurezza tre volte, con Stabile, Varallo e Monti, che colpì una traversa, ed anche sul 3-2 uruguayano ci furono altre due occasioni per il pareggio con Stabile e Francisco Varallo, morto dieci anni fa e all’epoca ventenne, prima del 4-2 di Castro. Difficile parlare di una partita non vista, se non romanzandola, facile affermare che la finale del Mondiale 1930 fu il perfetto passaggio fra il calcio pionieristico e quello moderno che sognava la FIFA di Rimet. I migliori del vecchio mondo, con tutto il rispetto per gli inglesi e per le nazionali europee che avevano stupidamente rinunciato (fra queste l'Italia), che spiegavano il calcio a quello nuovo. 

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