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Grandezza e solitudine di un superuomo nel pallone.
È il 26 maggio 1999. Le telecamere si concentrano sulla inconfondibile fisionomia di uno fra i più iconici arbitri di tutti i tempi, Pierluigi Collina: lo sguardo chino sul cronometro, agli sgoccioli della 44esima finale di Champions League, mentre il quarto uomo sta per comunicare il recupero. Il regista stacca, ponendo al centro dell'inquadratura il volto del grande Lothar Matthäus, ormai prossimo al sublimare una carriera mitica e costellata di record con la conquista dell'unico trofeo assente nel suo palmares. Il suo volto si increspa in un sorriso, quasi sicuramente involontario, ed è una debolezza di spirito quasi scusabile: chiunque abbia assistito alla partita, ha la certezza che fra poco il Camp Nou si colorerà dei colori bianco e rosso dello squadrone bavarese, che ha dominato la partita ben oltre quanto racconta il punteggio, uno striminzito 1-0 firmato dal genio intermittente di Mario Basler.
Ancora qualche giro di lancette e poi saranno le mani sicure di capitan Oliver Kahn a stringere la coppa dalle grandi orecchie e levarla al cielo trionfante. Proprio Kahn sta ora camminando avanti e indietro, ai confini dell'area piccola: l'incedere non denota nervosismo, non denuncia insicurezza. È il passo del padrone che perlustra il proprio podere. Il biondo portiere sta vivendo la stagione della definitiva consacrazione; e forse, inconsciamente, in quegli istanti ripensa alla sua ancor giovane carriera. Gli esordi nel Karlsruhe, squadra della sua città natale, dove inizia da difensore per poi arretrare fra i pali – cosa che gli sarà utile per rivelarsi leader difensivo in tutto e per tutto, manifestando una abilità coi piedi allora non ancora comune e richiesta come oggi.
Il carisma non gli fa difetto, il fisico esplosivo pare forgiato nell'acciaio: è lui uno degli elementi di spicco del Karlsruhe rivelazione della Coppa UEFA 1994, underdog spintosi fino alla semifinale, col fiore all'occhiello del mitico "Miracolo al Wildparkstadion", quando i tedeschi seppellirono il Valencia sotto la valanga di 7 gol. Quella fu la stagione in cui per la prima di 5 volte fu nominato "portiere dell'anno" in Germania. Ma gli occhi di Kahn erano gonfi di ambizione, e dovevano posarsi su un panorama che gli avrebbe consentito di puntare il mirino su allori più prestigiosi: ecco quindi stagliarsi di fronte a lui la sfida del Bayern. L'eredità di Aumann è un peso che Oliver mostra fin da subito di poter gestire con tranquillità, e nemmeno un grave infortunio mina le sue certezze: arrivano la gloria domestica e il primo trionfo europeo, la UEFA 1996, anche se in copertina ci finì Klinsmann con i suoi gol. Ma a fermare in finale il Bordeaux rivelazione dell'astro nascente Zinedine Zidane furono i guanti del biondo portierone.
Anche in Nazionale le stelle paiono rivolgere all'estremo uno sguardo benevolo: Köpke ha annunciato il ritiro, il nuovo nume tutelare della Nationalmannschaft risponderà al nome di Oliver Kahn. Ma il calcio è metafora della vita anche per la sua imprevedibilità, quei repentini cambi di fronte che paiono obbedire ai desideri degli antichi dei capricciosi dell'epica omerica. Il Manchester United conquista un corner, e nel disperato forcing finale anche il portiere Schmeichel va in area a tentare il tutto per tutto. Nessuno lo sa ancora ma sta per iniziare il Fergie Time, la trasposizione mancuniana della nostra Zona Cesarini, un momento in cui i Red Devils parevano tirare fuori qual qualcosa in più che faceva svoltare le partite e le stagioni.
Il pallone calciato da Beckham scatena una mischia, dal batti e ribatti Giggs scocca il tiro della disperazione, e l'area piccola è un mare che il vecchio bucaniere Teddy Sheringham conosce fin troppo bene. La sua deviazione sotto misura è una coltellata che vale il pari e stordisce i bavaresi: la sicurezza abbandona i volti dei teutonici cedendo il passo alla titubanza, anticamera della disperazione, che di lì a poco albergherà nei cuori di tutto il Bayern. Un altro corner, Sheringham che svetta e, sempre nel podere di Kahn, appare la faccia da putto di Ole Gunnar Solskjaer, il cui tocco sottomisura è il chiodo nella bara.
C'è sempre qualcosa di epico anche nei volti degli sconfitti: rimarrà nella Storia la reazione isterica di Osei Kuffour, la smorfia addolorata e impotente di Matthäus. Kahn dopo il gol di Solskjaer rimane a terra, inebetito, impotente, stordito: viene aiutato a rialzarsi, e sembra di vedere la Deposizione caravaggesca. Per crudele contrappasso, dall'altra parte del campo Peter Schmeichel, anche lui biondo, anche lui dal fisico imponente, anche lui dall'aspetto truce che gli avrebbe consentito di passeggiare tranquillamente nel peggior quartiere malfamato di Lagos, anche lui Capitano, festeggia facendo la ruota, come un gigantesco bambino felice.
La retorica racconta che dalle sconfitte si possa e debba trovare fonte di ispirazione e riscatto ("dalla sconfitta si impara"), e un vincente potrebbe obiettare senza tema di smentita che preferirebbe allora trascorrere la sua carriera sportiva nella più beata ignoranza: ma le batoste portano con sé anche delle conseguenze, invisibili lacerazioni dell'anima. E Kahn precipita nel baratro. A volte la sconfitta diventa un peso insostenibile anche per le possenti spalle di un Titano, soprannome di cui Oliver andava orgoglioso. La disfatta barcellonese è un mondo che si espande, sempre più insopportabilmente ponderoso, anche per il nerboruto Atlante di Karlsruhe. Nel mondo allora ancora prevalentemente machista del calcio, Kahn non può confessare quello che la disfatta, e la conseguente delusione, hanno scatenato nella sua mente: è il demone della depressione, ora latente ora più esplicita, ma che spaventa chiunque perché è qualcosa difficile da diagnosticare e che colpisce da dentro, invisibile ai nostri occhi.
Kahn vaga nel buio alla ricerca di un rifugio, non sapendo di non poterlo trovare nella prigione della sua anima: a volte non riesce nemmeno ad alzarsi dal letto, le scale gli sembrano condurlo in un abisso senza fine, anche il solo camminare è sforzo disumano. Difficile dire cosa scateni la depressione negli sportivi: per Adriano fu un terribile lutto familiare, a lasciargli un vuoto nel cuore che l'alcol non poteva riempire. Per Cavendish i ripetuti infortuni, alcuni davvero incredibili e sfortunati, che gli tolsero la convinzione di poter tornare a essere il numero 1. Per Pantani fu il sentirsi perseguitato e bersagliato dall’ingiustizia. O il più recente caso di Ashleigh Barty, che semplicemente non riesce a conciliare una vita sportiva che le garantisce soddisfazioni, successi e stabilità economica con il godimento di affetti e desideri più comuni.
Nella mente di Kahn si scatena una tempesta incontrollabile: si apprestava a raccogliere gli onori di un trionfo e sono bastati un paio di minuti di gioco perché lo specchio gli restituisca l'immagine di un uomo smarrito, svuotato, distrutto, un esule senza rotta, Ulisse oltre le Colonne d'Ercole. È la famiglia il bene decisivo per Oliver: anche il padre è stato calciatore professionista, e capisce bene quali mostri della psiche possano essere scatenati dalle delusioni agonistiche. Kahn si affida alla cultura del lavoro, e rapidamente torna a essere il portiere quasi imbattibile che è sempre stato: un estremo difensore praticamente insuperabile, un leader abituato a dare ordini secchi e severi, un ufficiale della Wehrmacht che non dà consigli, ma impartisce ordini, minaccioso fin quasi dall'aspetto.
Soriano lo avrebbe definito uno di quei portieri che fanno restringere la porta, che agli attaccanti lanciati verso di lui doveva sembrare terrorizzante come il maniero di Grayskull, la cui fauci di pietra sovrastanti l'ingresso sembravano pronte a divorarti. Kahn appare inumano; perfino il suo sorriso ha le sembianze di ghigno luciferino, a guisa di lupo all'apparenza innocuo ma pronto a mostrarti le zanne, e rapidamente sbranarti senza pietà. Riacquistata la sicurezza che gli permette di comandare i compagni di reparto, e di rendere praticamente invalicabile la sua porta, inizia a riempire le mensole della sua magione di trofei, personali e di squadra, e nel 2001 il destino restituisce a Oliver quello che gli aveva tanto crudelmente tolto.
È forse la finale più brutta della storia, quella che si disputa il 23 maggio a San Siro: alla Scala del calcio va in scena Bayern Monaco vs Valencia, una rappresentazione che è un vero spot per gli hater del calcio in pianta stabile. Per sbloccare il risultato servono due rigori, oltretutto non limpidissimi, e la partita si trascina, con ben pochi sussulti, verso l'epilogo di quella che ampia letteratura definisce "la crudele lotteria dei calci di rigore", questa sì invece emozionante, ricca di colpi di scena e ribaltamenti di fronte.
È una sfida nella sfida, quella fra Kahn e Santiago Canizares, fra il portiere dallo sguardo glaciale e quello dagli occhi spiritati, capaci già di ipnotizzare Schöll nei tempi regolamentari. Il duello si risolve a favore del teutonico, che si rivelerà degno del titolo di portiere numero 1 al mondo, neutralizzando ben tre tiri dal dischetto: una prova di maturità certificata anche dal modo in cui, mentre fra i compagni impazzava l'esultanza, si reca dal rivale iberico, a terra disperato, e prova a confortarlo, pur sapendo che il compito fosse inutile. Kahn a fine anno si laureerà per la terza volta consecutiva miglior portiere del mondo, ma già la testa è protesa verso la prossima sfida.
Il 2002 è l'anno dei Mondiali, che per la prima volta verranno disputati in Oriente: Giappone e Corea godranno il privilegio di ospitare la massima competizione calcistica per Nazionali. Evento raro, la Germania non figura nel novero dei favoriti. Troppo fresco il ricordo del disastro di Euro 2000, con i tedeschi eliminati al primo turno, senza vincere nemmeno una partita. Eppure, a dispetto dei pronostici avversi, i ragazzi di Völler paiono voler confermare l'assioma di Gary Lineker. Dopo una agevole qualificazione nel girone, con un clamoroso 8-0 all'Arabia Saudita, la Germania si fa di granito e plana in finale, dove la attende il Brasile, grazie a tre risicati 1-0 consecutivi. Il punto in comune di questi successi? Lo straordinario momento di forma di Michael Ballack, certo, ma soprattutto le eccezionali prestazioni Der Titan, che appare davvero insuperabile: fino a quel punto, un solo gol subito, da Robbie Keane nei gironi.
La finale è prevista il 30 giugno a Yokohama, e curiosamente sarà la prima occasione nella storia della Coppa del Mondo in cui si sfideranno le due superpotenze del calcio: per entrambe è la sesta finale, ma se il Brasile si presenta con tutti gli effettivi a disposizione, la Germania deve fare a meno di Ballack, appiedato da una squalifica. Kahn ancora una volta ha la fascia al braccio, e ancora una volta stringerà la mano a Collina prima del sorteggio prepartita: gli amanti della scaramanzia trasalirebbero, il compatriota Marx farebbe notare come la storia tenda a ripetersi. Ronaldo, la testa ornata da una acconciatura allucinante, è più che mai Piè Veloce, risorto da tutte le sue disgrazie; Kahn è l'omerico Ettore, che lotta strenuamente contro il Fato.
Ma quando al 67' Ronaldo scaglia l'ennesima lancia, la breriana dea Eupalla prende le sembianze di Minerva alle Porte Scee e, sulla goffa respinta di Kahn, il Fenomeno riceve dalla dea l'occasione di trafiggere il nemico. È il primo errore del tedesco nel torneo: rimarrà l'unico (l'estremo risulterà assolutamente incolpevole in occasione del raddoppio), e non impedirà al biondo Oliver di venir nominato, primo nella storia, miglior portiere e miglior giocatore del torneo. Lo stesso Kahn che risulterà ancor più gigantesco quando nel postpartita, al cronista che gli fornirà il comodo alibi di una microfrattura per giustificare l'errore, risponderà di non voler cercare alcuna giustificazione.
In Giappone e Corea probabilmente Kahn raggiunge lo zenith della carriera, in quello che sarà il suo unico Mondiale da titolare, cosa che appare quasi inaudita per un portiere del genere: certo, il rendimento mantenuto costantemente su altissimi livelli non sarà scevro da papere anche clamorose (celeberrima quella su uno dei rari tiri non irresistibili di Roberto Carlos, che costò l'eliminazione al Bayern in una sfida stellare contro il Real Madrid). E Kahn si distinse anche per prodezze al contrario che parevano confermare la vulgata che voleva l'estro prendere possesso anche del più imperturbabile fra i portieri: durante un acceso match contro il Dortmund un'uscita alta fu l'occasione per tentare di svellere la testa con un calcio volante a Stephane Chapuisat, con lo svizzero salvatosi per puro istinto di conservazione.
Non fu certo l'unica mattana di colui che al Der Spiegel si prese la briga di definire quello del portiere "un ruolo per psicopatici", regalando una vasta aneddotica a sostegno della propria tesi. Tralasciando bicchieri di urina lanciati contro gli addetti dell'antidoping, i compagni di squadra presi a ceffoni o strattonati, e avversari rincorsi per il campo (Mikic, del Kaiserslautern, inseguito incredibilmente fino a metà campo fra l'ilarità del telecronista) o presi per il collo (Brdaric, contro il Leverkusen: solo giallo), memorabile fu anche la prestazione contro l'Hansa Rostock, col Bayern in svantaggio 3-2, e lui che sugli sviluppi di un angolo va in area avversaria e scaraventa in rete il gol del pari. Peccato che usi i pugni, e l'arbitro non possa fare a meno di annullare il gol e sventolargli il cartellino giallo per la seconda volta, cacciandolo dal campo. Oliver dimostrerà insospettate doti di autoironia, quando ai cronisti che gli chiedevano spiegazione del raptus, rispose "credevo che il portiere in area fosse sempre autorizzato a usare le mani!"
Ironia che però non servì ad aumentare la sua popolarità presso i tifosi: le prodezze fra i pali e i prodigi in uscita, combinati con la platealità delle sue arringhe ai compagni, spesso condite da insulti e minacce, erano elementi che lo portavano ad essere adorato dai propri supporter, ma che gli attiravano l'ostilità generale delle torcide rivali. Nel corso della carriera gli lanciarono, oltre a ogni tipo di insulto, anche una palla da golf e persino delle banane, a sfotterlo sulle sue presunte fattezze da gorilla. Insulti che Kahn si lasciava scivolare addosso con estrema facilità: del resto, parliamo di uno che non si fece troppi scrupoli ad abbandonare la moglie all'ottavo mese di gravidanza per sedurre una cameriera, Verena Kerth, inaugurando una carriera di sciupafemmine che lo porterà a rivaleggiare con Walter Zenga per numero e bellezza delle conquiste – anche se ora l'ex portiere teutonico pare aver raffreddato i bollenti spiriti, domato (forse) dalla bella Svenja.
Ma l'abilità venatoria con le sottane non è l'unico punto in comune con il Deltaplano nerazzurro: lo sono anche la cannibalizzazione del titolo di Miglior portiere del mondo IFFHS, vinti tre volte consecutivamente da entrambi, e il Fato perverso che negò loro la gioia di vincere la Coppa del Mondo nonostante un rendimento personale elevatissimo inficiato però da un unico, ma decisivo, errore. L'ex compagno Klinsmann, divenuto ct, gli negò la titolarità nel Mondiale casalingo del 2006, che sarebbe potuto essere il canto del cigno del Titano, preferendogli Lehmann. Ma Kahn ebbe modo di mostrare tutta la sua classe quando incoraggiò il collega-rivale prima dei decisivi tiri dal dischetto nella sfida da sogno contro l'Argentina nei quarti, ed ebbe l'amara soddisfazione della passerella concessagli nell'inutile finalina per il terzo posto, dove peraltro fece faville, in un degno congedo dalla Nazionale.
Kahn proseguì la carriera per un paio di stagioni, ritirandosi nel 2008 e dedicandosi a varie attività: ma esistono persone che sono nate per guidare, per essere condottieri pur rimanendo al servizio degli altri. In fondo è questo che fa un portiere, come un'aquila maestosa che gli altri guardano dal basso come a un punto di riferimento, un'ancora di salvezza. Valutazioni che magari ha fatto pure Karl Heinz Rummenigge quando lo ha scelto come suo delfino: e vedendo quanto l'allievo imparasse in fretta, non è un caso che abbia anticipato di sei mesi la sua successione, facendo di Oliver Kahn il nuovo amministratore delegato del club bavarese. Perché il destino dei veri numeri 1 è quello di stare al comando, sempre e comunque.
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