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Il lungo viaggio dall'arbitro al Var

Il lungo viaggio dall'arbitro al Var

Come sembrano lontani i tempi di Lo Bello e anche quelli di Collina. Spopolano “le moviole delle moviole” ma servirebbero norme più nette

2 marzo 2022

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L'idea dell’arbitro non nasce con il calcio, nasce dopo. Gli inglesi pensavano di non averne bisogno. Delegavano la giustizia del «condominio» ai capitani delle squadre. O erano comunque gli stessi duellanti a portarli, a indicarli. Uno per parte. Salvo eleggerne un terzo, in tribuna, con facoltà di mediazione. Fino a quando l’International Board non lo codificò, nel 1891. Non si può non partire dall’Impero, e dai suoi «umpire», per arrivare al Var, acronimo di Video assistant referee.

Un viaggio di secoli nella pancia del quale continuiamo ad agitarci un po’ sceriffi e un po’ banditi, curiosi di percepire il senso della missione, in bilico perenne tra autorità e autoritarismo. Il primo concetto di arbitro, in Italia, fu l’arbitraggio di Concetto. Concetto Lo Bello di Siracusa. Una pietra miliare. Un candelotto esplosivo. Riassume e incarna il potere assoluto in uno scorcio di Paese la cui la televisione stava gattonando oltre la radio. Piano piano, rigorosamente in bianco e nero, tra vallette e Valletta, l’uomo forte della Fiat. Gli assistenti si chiamavano ancora guardalinee, se non, con gergo minimalista, segnalinee. Lo Bello era in fuga. Troppo lontano dal gruppo. E per questo, felicissimo. Nel libro «Un tiro mancino; Riva, il Cagliari e uno scudetto che non finisce mai», Nanni Boi rievoca un gustoso aneddoto. Risale al 12 ottobre 1969, all’1-0 di Firenze, su rigore, con il popolo viola in subbuglio per alcune scelte del «tiranno». La comitiva del Cagliari lo incrocia casualmente a Fiumicino. Andrea Arrica, factotum della società, «gli chiese: “Certo che quel Duce-Duce all’inizio potevano risparmiarselo” e lui con un sorrisino replicò: “E tu cos’hai pensato quando li hai sentiti?”. Arrica non se lo lasciò ripetere due volte: “Che avrei vinto la partita”. Il siciliano, dandogli una pacca sulla spalla, concluse beffardo: “E hai pensato proprio bene...”».

Lo Bello ammise l’errore in tv «Morini su Bigon: sì, era rigore!»

Al suo repertorio di mattatore dobbiamo una sorta di proto-Var, addirittura, dopo un’edizione di Juventus-Milan (1-1). Era il 20 febbraio del 1972, la moviola l’avevano «solo» Carlo Sassi e Heron Vitaletti. Lo ospitarono alla «Domenica sportiva», Bruno Pizzul gli mostrò un episodio: Francesco Morini detto Morgan che affossa Albertino Bigon. Lo Bello lo scruta, si liscia il baffo e si scusa: in diretta. Ridacchiando: «Ebbene sì, era rigore». Le abbiamo tentate tutte. Con gli arbitri stranieri: un disastro. Il doppio arbitro, uno per metà campo, nella Coppa Italia della stagione 1999-2000: per carità.

Gelosi, permalosi, irascibili, come tenutari di piccoli poderi dai recinti ambigui. Fino a Pierluigi Collina. L’hombre che trasloca la solitudine altera delle «giacchette nere» nel calderone della tv, là dove il giudizio personale non è ancora il giudizio universale, ma lo sarà: questione di tempo. Collina è il Concetto del suo periodo, più «marcato» del siculo, ma non (ancora) al punto di scendere a patti con il suo Ego. Vi scenderà un pomeriggio, il 14 maggio 2000 allo stadio Curi, nell’intervallo di Perugia-Juventus. Ultima di campionato. C’era in ballo lo scudetto, il cielo scatenò l’inferno, più di 70 minuti di stop fra telefonate bollenti e irriverenti, e poi, al primo squarcio di sereno, il ritorno alle armi, il gol di Alessandro Calori, il sorpasso della Lazio. La fatal piscina.

Se Lo Bello si era inventato ex post un rudimentale strumento assimilabile alla moviola varista, Collina se la costruì in campo, la notte di Inter-Juventus 0-0. Era, per la cronaca e per la storia, il 9 marzo 1997: su lancio di Beppe Bergomi staccano, di forza, l’un contro l’altro armati, Ivan Zamorano e Paolo Montero. La palla schizza vicino a Maurizio Ganz che la doma, corica Angelo Peruzzi e segna. San Siro esplode. Madama protesta, spinge il «Caos calmo» dall’assistente. I due si parlano. Ed esce l’equivoco: non è stato Montero, ad allungarla di testa, è stato Zamorano. E allora, fuorigioco di Ganz: «chiaro ed evidente», per usare lo slang del Duemila. Collina si dirige verso la panchina dell’Inter, si china e spiega: Roy Hodgson e Giacinto Facchetti ne prendono atto. Tutto qui? Macché. Paolo Casarin, il designatore, gli telefona e lo invita a salire in sala stampa: che raccontasse la rava e la fava pure ai giornalisti. Agli ordini. Ditemi voi se non si tratta di un piccolo Var fatto in casa. Chiesero un parere a Peppino Prisco. Avvocato, sarà contento: era irregolare, giusto annullarlo. All’alpino astemio, che bazzicava i «vicoli» di coloro ai quali era stata riconsegnata la refurtiva, non par vero: «Proprio perché irregolare, andava convalidato». Fuorigioco, chi era «costui»? Improvvisamente, l’Ajax di Rinus Michels e Johan Cruijff, il Bruges di Ernst Happel. E da noi, discepoli devoti, Zdenek Zeman e Arrigo Sacchi. Sciami di difendenti che avanzano in blocco, per depredare dello spazio e dell’attimo gli attaccanti. L’arbitro non serve più, non basta più. I protagonisti diventano le bandiere dei collaboratori. Affiora, dagli anfratti di questo «catenaccio in smoking», un calcio diverso. Al Bernabeu, nel corso di un Real-Milan 1-0 (il Milan di Sacchi, in Coppa dei Campioni), Hugo Sanchez, Emilio Butragueno e il loro strascico ci cascano 24 volte. Siamo negli anni Ottanta, e il fuorigioco è colpevolista, arrestano chiunque si trovi in linea, non importa se coinvolto o meno nell’azione. Quando Franco Baresi alzava il braccio, era fuorigioco da piazza Duomo, Milano, a piazza Navona, Roma. I guardalinee, sull’orlo di una crisi di nervi; il direttore di gara, notaio di banali rogiti.

Scoppia la rivoluzione. Al diavolo i privilegi. «Nel dubbio, non sbandierate», tuona Casarin. La Fifa passa da un eccesso all’altro, solo chi tocca la palla lo è, i compari non più, liberi di pascolare davanti al portiere come turisti al Prado. Nel frattempo, la televisione ha preso piede, la moviola artigianale del processo biscardiano ha raggiunto i livelli di tribunale del popolo. Joseph Blatter e Michel Platini detestano la tecnologia, che nel laboratorio della famiglia Pozzo, a Udine, prepara silenziosamente il futuro. E allora: più poteri al quarto uomo, caccia ai gol fantasma attraverso i giudici di porta, voluti da Platini, quei signori che scrutano le traiettorie in posizione «coccodè», come scrisse Giuseppe Pistilli, neanche dovessero covare l’uovo. La serie A li introduce nel 2012, dopo la rete di Sulley Muntari in Milan-Juventus 1-1. Sarebbe stato il 2-0, se ne accorsero in 80 mila meno tre: Paolo Tagliavento e le sue spalle.

I gol fantasma di Lampard e Muntari

Non è l’inizio della fine. È la fine, e un inizio. La fine del calcio in mano all’arbitrio dell’arbitro. L’inizio dell’arbitro «scortato». D’altra parte, il gol di Frank Lampard non colto in Germania-Inghilterra 4-1 ai Mondiali sudafricani aveva scatenato la collera degli sponsor, e persino Blatter si era arreso. Irrompe, così, la goal line technology, il marchingegno studiato nelle Nase friulane. Nei nostri saloon, dall’agosto del 2015: l’orologio al polso spara la sentenza. Ma dal momento che tutti, ormai, vedono tutto, eccetto gli inquilini delle singole arene, la sorveglianza mirata al gol non placa più gli appetiti della gente. Soprattutto in Italia, là dove la Juventus colleziona scudetti su scudetti (nove, dal 2012 al 2020). Scottati dal doppio designatore di Franco Carraro e dalla Calciopoli della «Biade», si procede ad allargare la gamma delle tele-manette per catturare (almeno) i sospetti. Dall’estate del 2017 debutta, salutato da applausi scroscianti e sollecitato da Carlo Tavecchio, all’epoca presidente della Figc, il Var. Concetto Lo Bello ci ha lasciato nel 1991, Collina ha fatto il designatore di tutto e di tutti, tranne che di sé stesso. L’arbitro è collegato, via auricolare, con il resto pulsante e dirimente del («suo») mondo. Prima di brandire la bandiera, non appena si sparge fumo di fuorigioco, gli assistenti-pompieri devono aspettare che l’azione si spenga. I bracconieri sbuffano, isterici.

I giornali non affidano più le pagelle delle terne agli inviati. Come a Lissone per il Var, ogni redazione ha un suo centro operativo che osserva, verifica e screma gli episodi alla tv, dà i voti, generalmente bassi. La cassazione. Immagino Gianni Brera sacramentare nella tomba.

 La spinta di Cairo dopo Toro-Roma

Si narra che la spinta cruciale, decisiva, l’abbia data Urbano Cairo, proprietario del Toro, del «Corriere della Sera», della «Gazzetta dello Sport» e de «La 7», dopo Torino-Roma 0-1 del 19 agosto 2018. Detonatore, un rigore sfilato ai granata. Crepitano le moviole delle moviole: perché, in fin dei conti, il Var altro non è che una rivisitazione, per legge, degli istanti più scabrosi. Gli eserciti pro e contro spesso si affrontano e ogni tanto si confondono. Bisogna che gli arbitri ci vadano di più, al video; no, sarebbe meglio se ci andassero di meno; e poi il protocollo, che sta alle processioni come il materasso ai tormentoni di Renzo Arbore, «il massimo che c’è» (mica sempre).

Povero Var: avrebbe avuto bisogno di norme nette, viceversa gli hanno appioppato i mani-comi (provate a chiuderli voi, se ne avete il coraggio) e i rigorini, quegli strusci che, se rallentati, sembrano coiti. La sua vendetta è, per ora, l’off-side dell’alluce, la riga tirata da matite umanoidi per fissare il più crudele dei confini. Morale della favola: comanda l’attacco, non più la difesa. E l’arbitro non è più un romanzo di Robinson Crusoe: è Herbert Pagani che lavora al Var di un albergo a ore e porta su il replay a chi fa l’errore. Non so se ho reso il Concetto.

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