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Don Fabio cominciò la sua carriera calcistica a Ferrara prima di transitare per Roma e fare poi il grande salto a Torino
Il ritorno della SPAL in Serie A ha riproposto al grande pubblico la partita con la Juventus, match contraddittorio per l’elevato dislivello tecnico esistente tra le due squadre. Che, a pensarci bene, sono distanti non solo nella classifica del campionato ma anche per le rappresentazioni socio-culturali che simboleggiano. La SPAL, Società Polisportiva Ars et Labor, fu fondata dal sacerdote salesiano Pietro Acerbis; la Juventus è, da sempre, la squadra della Fiat e degli Agnelli, la famiglia più potente d’Italia. Il gioviale sorriso dei ferraresi abbonda di scherzi e malizie inappropriate a dipingere quello più contenuto, semplicemente cortese dei torinesi. C’è un uomo, però, che ha saputo vestire, in momenti diversi della sua carriera, con la stessa dignità e lo stesso portamento le divise di entrambe le società: Fabio Capello. Forse perché uomo nato e cresciuto in un paese di confine, Pieris, capace di portare a sintesi realtà distanti tra loro a metà strada tra la montagna e il mare, la solida cultura contadina del Friuli e la propensione all’apertura commerciale di una città di mare come Trieste.
Il giovane Fabio mosse i suoi primi passi da calciatore a Ferrara, dove si spostò ancora in età scolare. Abitava con un altro futuro allenatore, anche lui goriziano: Edy Reja. Si formarono insieme in quella città dove le ragazze che studiavano alle magistrali li vedevano affacciati alla finestra di quell’appartamento sopra la sede della SPAL, con qualche timido sorriso e delle frasi sommesse che arrangiavano un appuntamento per fare una passeggiata e conoscersi. Ma il calcio, anche se a Ferrara Capello troverà moglie, restava il suo pensiero dominante, primo motore di azioni e opere che, dopo i primi due anni di apprendistato, lo portarono a prendersi le chiavi del centrocampo della squadra. Fabio è sempre stato un centrocampista: mai dieci metri più indietro, nessuna velleità di avanzare il raggio d’azione a ridosso della porta avversaria se non per qualche inserimento nei momenti opportuni per risultare decisivo.
Probabilmente la sua terra d’origine gli ha dato la capacità di avere equilibrio, di capire sempre il momento e il posto giusto dove andare. E nel 1967 quel posto è Roma, città nella quale Capello, amante d’arte e della pittura, si lascia incantare dalle luci e dalla storia, tanto da chiedere al presidente Marchini, nell’estate del 1969, di non essere ceduto alla Juventus, che già lo cerca e lo avrà comunque un anno più tardi. E’ a Torino che don Fabio, come lo chiameranno qualche lustro più avanti i madrileni, si perfeziona professionalmente. Gioca con campioni assoluti, sviluppa e leviga doti di leadership e un gioco essenziale, pragmatico, comunque elegante nella sobrietà di uno stile che ben si combina all’austerità sabauda. Coltiva l’amicizia con un altro friulano come Dino Zoff, esordisce in nazionale ed entra nella storia per segnare il gol della vittoria che il 14 novembre 1973 consente per la prima volta all’Italia di espugnare Londra nel tempio di Wembley. Con la Vecchia Signora vince tre campionati prima di indossare l’ultima maglia della sua carriera da giocatore, quella del Milan che, più che con le prestazioni dei suoi ultimi quattro anni sul campo, spesso subordinate a una condizione fisica non più ottimale, renderà immenso allenandone i campioni degli anni novanta.
Da calciatore prima, da allenatore poi, Capello ha rappresentato nei fatti qualcosa di diverso rispetto ai cliché che giornalisti e agiografi hanno avuto la necessità di assegnargli. Spesso dipinto come un sergente di ferro per via delle linee guida improntate a disciplina e cultura del lavoro che chiedeva ai suoi uomini di seguire per raggiungere risultati d’eccellenza, Capello ha saputo declinare nel calcio la capacità di muoversi tra sottili equilibri che caratterizza gli uomini di confine. Esigente, anche con se stesso, mai intransigente (se lo fosse stato, con lui Cassano non avrebbe mai giocato), dietro all’immagine burbera che ha preferito esprimere di sé, nel tempo è riuscito a mantenere intatto l’interesse per l’arte e la psicologia individuale, peculiarità che gli ha consentito di guidare al successo uomini spesso complicati, difficili da gestire, compresi anche grazie alle esperienze collezionate nel lungo viaggio che Fabio Capello cominciò nella SPAL degli anni Sessanta.
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