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Il 4 maggio 1949 un aereo Fiat G.212 con a bordo il Torino di Valentino Mazzola si schiantò nei pressi della basilica di Superga. La fine prematura regalò a quella squadra il privilegio della leggenda
Sarti, Burgnich, Facchetti; Bedin, Guarneri, Picchi; Jair, Mazzola, Milani; Suarez, Corso. Un undici entrato nella storia e nell’immaginario collettivo come una litania di successo, un esempio paradigmatico di ascesa e benessere sociale, di riscatto e celebrazione. Era l’Inter di Herrera e Moratti, una squadra che seppe rappresentare negli anni sessanta le capacità di ripresa di un intero paese che si lasciava definitivamente alle spalle le macerie intime e materiali della seconda guerra mondiale.
Prima dell’Inter che vinceva in Europa, però, un’altra squadra aveva saputo conquistare l’affetto e la stima dell’Italia intera. Anche lei, come i nerazzurri, aveva una formazione da poter recitare fluida e ritmata come una preghiera, piena di significato anche se sancita con distrazione da giornalisti affaccendati a raccogliere le ultime informazioni prima di dare corso all’inizio delle radiocronache: Bacigalupo, Ballarin, Maroso; Grezar, Rigamonti, Castigliano; Menti, Loik, Gabetto; Mazzola, Ferraris. Anche lei, come i nerazzurri, con un Mazzola da ammirare: Valentino prima di Sandro, cromosomi di calcio trasmessi di padre in figlio. Anche lei, prima dei nerazzurri, capace di simboleggiare una ripresa che, nei secondi anni quaranta, era ancora agli albori. Quando le formazioni avevano la loro sacralità intangibile, fatta di ruoli precisi, titolari amovibili solo a causa di infortuni o squalifiche e il richiamo alla disposizione in campo dei giocatori veniva dettato dal rispetto della punteggiatura che solerti cronisti rispettosi della grammatica sapevano cadenzare. I tempi in cui i numeri di maglia erano legati ai ruoli e non ai nomi di calciatori che, insieme ai portafogli, sapevano dar peso anche ad altri valori. Come pure la società.
Era il Grande Torino, la squadra più forte avuta dall’Italia negli anni quaranta del secolo scorso. Una compagine che Ferruccio Novo, industriale piemontese che ne divenne presidente nell’estate del 1939, seppe costruire con la lungimiranza e la passione che contraddistingue la realizzazione dei capolavori. Si, perché quel Torino era davvero un capolavoro, ininterrottamente campione d’Italia dal 1943 al 1949, che il destino volle cancellare anzitempo dalla vista dei mortali per regalargli ciò che ai più la vita nega: il ricordo imperituro, scolpito nella memoria dei contemporanei, ricostruito e tramandato alle generazioni successive dalle cronache e dalla gloria delle gesta che sanno attraversare le dogane del tempo. Imprese che profumano d’epica, come le innumerevoli partite che quei granata vincevano stritolando gli avversari. A quel Toro era sufficiente giocare sopra ritmo per un quarto d’ora, quello che cominciava con un triplice squillo di tromba che, partito dagli spalti del Filadelfia, costituiva il segnale convenzionale per iniziare l’assalto e segnare gol a raffica, prima di tornare a gestire il risultato senza ulteriori affanni.
Una squadra che aveva saputo superare il limite geografico del campanilismo avendo regalato alla nazionale fino a dieci undicesimi dei suoi effettivi: accade l’11 maggio 1947 a Torino nella vittoriosa partita disputata contro l’Ungheria di un ancor giovane Ferenc Puskas. Il destino attrasse a sé quell’insieme di campioni, in molti casi anche amici, togliendo dall’orizzonte dello scibile la loro partecipazione ai mondiali del 1950, quelli ai quali gli azzurri, proprio a causa della sciagura di Superga, arrivarono spossati dopo un interminabile viaggio via mare, dove persero i palloni per allenarsi e le energie necessarie a ben figurare in Brasile.
Il 4 maggio del 1949, settanta anni fa, di ritorno da un’amichevole giocata a Lisbona contro il Benfica, il Grande Torino scomparve dagli occhi nelle nebbie di Superga. Qualcuno aveva deciso che quella squadra dovesse avere il dono dell’immortalità che solo il mito può concedere: troppe le coincidenze che sottrassero alcuni a quel destino per distribuirlo ad altri (a partire dal presidente Novo, non partito coi suoi ragazzi perché influenzato), le decisioni che spinsero quell’aereo su quella collina invece che verso altri scali, dove le condizioni atmosferiche erano migliori, per non pensarlo. Ai pochi che di quei ragazzi hanno il privilegio del ricordo, resta il piacere e l’onore di raccontarne la storia ai propri cari. E chi di quei racconti è destinatario raccolga l’onere leggero di tramandarne il valore.
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