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Dall'esplosione alla Cavese con Viciani al Parma di Arrigo Sacchi. Poi l'anno nella Capitale con la Roma e il passaggio al Genoa, dove divenne capitano e bandiera del popolo rossoblù. Abbiamo immaginato di incontrare l'indimenticato difensore toscano, sconfitto solo dalla SLA
Gianluca Signorini è stato uno di quei calciatori arrivato all’impatto con la Serie A nella fase già matura della sua carriera. Un giocatore con qualità umane e caratteriali solide. Una su tutte: l’umiltà, che non significa mancanza di consapevolezza o di ambizione ma, più semplicemente, voglia di migliorarsi allenamento dopo allenamento, partita dopo partita senza l’ossessione del guadagno e del successo a tutti i costi. Cuore e applicazione, rispetto dei compagni e dei valori che hanno portato un uomo, prima ancora che un calciatore, a essere ricordato anche dopo aver appeso al chiodo gli scarpini di una vita conclusa al termine di una partita impossibile da vincere, che Signorini fu costretto a giocare forse perché tra i pochi in grado di poterla sostenere. In questo dialogo improvvisato abbiamo provato a raccogliere l’intensità delle emozioni di un libro scritto tra il 1960 e il 2002, la cui storia è impressa nel cuore di chi Gianluca Signorini l’ha avuto come compagno, amico, calciatore idolo della propria squadra o avversario leale da affrontare.
Gianluca, nell’ultima fase della tua carriera, quella che ti ha dato maggiori soddisfazioni, sei diventato una bandiera del Genoa. In realtà, però, tu non sei genovese.
Sì, è vero: sono nato a Pisa il 17 marzo del 1960. E la mia carriera è cominciata e si è conclusa a Pisa, anche se coi nerazzurri non è che abbia disputato molte partite. I primi anni della mia vita da calciatore si sono svolti in un perimetro toscano abbastanza circoscritto: Pisa, Pietrasanta, Prato. Ho fatto anche due anni a Livorno tra il 1981 e il 1983.
Quando è arrivato il momento di svolta della tua vita professionale?
Forse il primo momento importante è stato l’anno in cui mi sono trasferito alla Ternana. Era la prima volta che giocavo fuori dalla Toscana, lontano dalla mia terra, dalle mie conoscenze e dalle mie abitudini consolidate. Professionalmente, però, l’annata successiva fu ancora più significativa. Ero passato alla Cavese, la stagione era cominciata con Romeo Benetti allenatore. Le cose, però, non andavano bene e il presidente Amato chiamò Viciani per sostituirlo. Viciani era stato tra i primi a portare in Italia i concetti del calcio moderno: zona corta, possesso palla, pressing alto, sovrapposizioni. Da lui imparai un modo diverso di interpretare il ruolo di difensore centrale che, l’anno seguente, mi portò al Parma di Arrigo Sacchi.
Il vate di Fusignano.
Già, anche lui era un rivoluzionario. A metà degli anni Ottanta la zona aveva cominciato ad attecchire anche in Italia: in particolare Liedholm la applicava già da diverso tempo ma Sacchi ne accentuava i connotati di velocità e pressing. Fu per questo motivo che l’esperienza a Cava de’ Tirreni con Viciani per me fu così utile: rese più semplice il mio inserimento nel Parma.
Diventasti una colonna di quella squadra.
Sì, furono due anni bellissimi. Il primo arrivò la promozione in Serie B, quello successivo arrivammo ai quarti di finale di Coppa Italia dopo aver battuto il Milan a San Siro in quella famosa partita nella quale Berlusconi venne folgorato da Sacchi.
Che l’anno successivo, infatti, approdò al Milan. Perché non ti portò con sé a Milano?
Perché non ne aveva bisogno! Nel Milan giocava già da anni un certo Franco Baresi, che oltretutto aveva la mia stessa età. Che senso avrebbe avuto?
Beh, si dice che Sacchi chiese proprio a Baresi di vedere le videocassette del Parma per studiare i tuoi movimenti nella linea difensiva…
Credo siano solo leggende metropolitane. Anche Ancelotti, che di quel Milan faceva parte, nella sua autobiografia ha smentito quell’aneddoto.
Però le porte della grande città, dopo quel biennio a Parma, si aprirono anche per te.
Sì, Sacchi andò a Milano e io scesi a Roma. Mi volle Liedholm, richiamato dal presidente Viola per ricostruire una squadra e un ambiente che nella seconda parte della stagione precedente avevano subito un tracollo inatteso.
Come fu quell’esperienza?
In verità un po’ contraddittoria. In campionato saltai solo una partita e la nostra difesa fu la migliore della Serie A dopo quella del Milan campione. Nonostante questo non riuscii a convincere appieno e l’anno dopo, forse anche per il fatto che la Roma voleva assumere un assetto di squadra più sbilanciato in avanti, venni ceduto al Genoa.
Cosa salvi dell’annata romana?
Messa così è una domanda severa. In realtà di Roma conservo un ricordo speciale: la città è bellissima e la società mi è rimasta nel cuore. E poi fu nella Capitale che cominciai a giocare con Collovati: io e lui formavamo la coppia centrale di quella squadra. Non essendo velocissimi, si diceva di noi che eravamo due… lenti a contatto. Però fu l’inizio di un rapporto che andò oltre il campo perché con Fulvio instaurai una confidenza particolare: facevamo lunghe passeggiate insieme parlando delle cose che riguardavano la nostra vita: gioie, preoccupazioni, dubbi.
Con lui ti ritrovasti a Genova.
Lui arrivò un anno dopo di me. Aveva voglia di riscatto dopo una stagione negativa a Roma, nella quale molti l’avevano considerato finito troppo presto. Ci davamo forza a vicenda e fu esaltante essere parte di quel piccolo miracolo calcistico che fu il Genoa dei primi anni Novanta.
Ce ne vuoi parlare?
Con grande piacere. Io arrivai che c’era Scoglio in panchina: altro grande personaggio, pieno di carisma. Indubbiamente con gli allenatori sono stato fortunato… Insomma, vinciamo il campionato di B e l’anno dopo ci assestiamo nella massima divisione. Siamo già un buon gruppo: gli uruguaiani (Perdomo, Paz e Aguilera) oltre a Ruotolo, Eranio, Torrente. Nel 1990, a seguito di un mondiale nel quale si era messo in evidenza, arrivò anche il nostro ariete: Tomas Skuhravy.
E lì vi cominciaste a divertire sul serio…
Mamma mia! Tomas era eccezionale, aveva una forza fisica spaventosa. Con Aguilera formava una coppia perfetta: lui potente e inarrivabile di testa, Patoagile e veloce, tecnicamente un sudamericano doc. Dare la palla a Skuhravy era come metterla in banca: alzavo gli occhi e lo vedevo che andava a piazzarsi in mezzo all’area, era sufficiente che il pallone fosse ben calibrato perché si arrivasse a un’azione da gol. Ci pensava Tomas a inzuccare verso la porta o a spizzare un assist per Aguilera. Nel 1991 arrivammo quarti in campionato e ci qualificammo per la Coppa Uefa: la migliore stagione del Genoa nel dopoguerra in massima serie.
Sempre con Scoglio?
No, dopo il primo anno di Serie A era arrivato Bagnoli, persona onesta e grande conoscitore di calcio. Sapeva trasmetterti tranquillità. Quella che ci servì l’anno dopo per il doppio match dei quarti di Coppa Uefa contro il Liverpool. La città non parlò d’altro per settimane, c’era il rischio di arrivare scarichi al confronto: Bagnoli seppe dosare al meglio le nostre energie fisiche e nervose e noi riuscimmo a dare il massimo e a eliminare gli inglesi.
Cosa si prova a essere la prima squadra italiana a vincere ad Anfield?
Fu un’emozione fantastica. Già poter giocare su quel campo davanti a tutta quella gente che fa un tifo incredibile ti dà una carica enorme. Anfield è un monumento calcistico mondiale, uscire vincitori da uno stadio dove nessuna squadra italiana c’era riuscita in precedenza ci dette la piena consapevolezza di quanto avevamo fatto. Genova era impazzita, noi stavamo a mille e non ci volevamo fermare. Ce l’avremmo potuta fare ma nel doppio confronto con l’Ajax commettemmo qualche errore di troppo e venimmo eliminati.
Fu quello il momento più alto della tua carriera?
Senza dubbio. Non riuscimmo più a ripetere quella stagione. Dopo tre anni lasciai il Genoa nel peggiore dei modi, con una retrocessione in serie B amarissima, che all’ultima giornata per un momento avevo immaginato di poter evitare. Finimmo la nostra partita convinti di essere retrocessi. Poi da Milano, dove il Padova, nostro diretto concorrente, stava pareggiando, arrivò la notizia del gol dell’Inter: un 2-1 che ci dava la possibilità di giocare lo spareggio coi veneti. Tornai felice in campo a festeggiare sotto la Nord coi nostri tifosi: dall’inferno al paradiso. In quel momento, però, non sapevo che il viaggio non era di sola andata: perdemmo lo spareggio nel più crudele dei modi, ai calci di rigore. Quando ci penso, ancora oggi mi viene il magone perché il Genoa è stato la mia vita, il mio grande amore: non avrei mai voluto abbandonarlo con una retrocessione.
Cosa volevi fare dopo aver smesso?
Sarei rimasto nel mondo del calcio. Ero tornato dalle mie parti, avevo coperto diversi ruoli prima a Pisa e poi a Livorno. Mi ero anche iscritto al corso di Coverciano. Poi mi sono ammalato.
Già, la malattia. Ti sei mai chiesto i motivi per cui ti può aver colpito?
Se ne sono dette tante, ci sono state anche le indagini della magistratura in merito. È vero che la percentuale di ex calciatori colpita dalla SLA è superiore alla diffusione media della malattia. Però, per quanto mi riguarda, sono convinto che si sia trattato solo di una scelta del destino.
Come si gioca una partita difficile come quella con la SLA?
Non è semplice. Soprattutto per uno sportivo, che per una serie di motivi è portato a sentirsi invincibile e ad avere il pieno controllo della propria forza. Ci sono stati momenti in cui avrei voluto alzarmi e correre, ma non potevo. Avrei voluto urlare coi tifosi canti di gioia, ma non potevo. Avrei voluto che tutta quella situazione fosse stata solo un brutto sogno dal quale svegliarmi ma non lo era. Alla fine fui costretto ad accettarla e a trovare conforto e forza nella famiglia e nelle persone che, in quei momenti, mi erano vicine.
Sai che i tuoi figli nei tuoi confronti hanno sempre avuto parole piene non solo di affetto ma anche di ammirazione?
Lasciare qualcosa di sé, oltre ai ricordi, significa riuscire a trasmettere dei valori. Se i miei figli parlano bene di me significa che una parte del mio modo di essere e di pensare sono riuscito a passarlo a loro e questo è qualcosa di cui vado molto fiero.
Gianluca Signorini si è spento a Pisa il 6 novembre 2002. L’ultimo viaggio ha deciso di farlo vestendo la maglia numero sei del Genoa, quella che gli aveva regalato più emozioni e della quale era innamorato. Una maglia che nessuno potrà più indossare, che rimarrà indissolubilmente legata al ricordo del capitano che guidò il vecchio cuore rossoblù alla conquista di Anfield.
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