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Buon compleanno al pilota tedesco capace di riportare in alto il mito Ferrari
Sale sul podio, a godersi il momento. Accanto a lui, un francese tarchiato, dallo sguardo furbo ma pieno di gioia. È il suo team manager, ma è già molto di più, è un amico fraterno. Quel “Monsieur”, che di nome e cognome fa Jean Todt, gli sussurra: «D’ora in poi le nostre vite non saranno più le stesse». Quel tedesco dal fisico statuario, asciutto come quello di un decatleta, lo ascolta, annuisce, sorride. È l’8 ottobre 2000, e sotto il cielo del Giappone ha appena riportato un titolo mondiale piloti che in casa Ferrari mancava dal ’79. Via alla festa: le bollicine del Mumm Cordon Rouge si mischiano alle gocce di sudore. Michael Schumacher sa bene che la sua vita, e quella di tante altre persone, non sarà più la stessa.
Il successo nipponico apre l’era più vincente della storia Ferrari e ne sublima Michael come l’attore principale. Nel giro di pochissimi anni, il suo cognome sarà in cima a qualsiasi classifica di merito della Formula 1, a cominciare da quella più importante, l’albo d’oro.
La sua è la rappresentazione fisica di un paradosso. È uno dei piloti più individualisti della storia, ma anche quello che sapeva più di tutti che il concetto di “team” è l’ingrediente fondamentale per arrivare primi al traguardo. Per intenderci: con i compagni di squadra rapporti sempre ambigui. Eddie Irvine e le misteriose dinamiche del mondiale 1999, l’affetto verso Rubens Barrichello, una stima per il brasiliano subordinata tuttavia alla consapevolezza dei propri ruoli. Con lo staff Ferrari una simbiosi perfetta: parla con i dirigenti, gli ingegneri, si confronta, contribuisce in maniera decisiva allo sviluppo delle macchine. Lo fa in italiano, la stessa lingua che però nega in ogni apparizione pubblica, svilendo i media del Belpaese. Schumi, ma perché vivi e lavori in Italia e non parli nella nostra bella lingua? Perché non serve. E poi meglio in inglese, che lo conosco bene, almeno evitiamo fraintendimenti.
Un senso di praticità tutto teutonico, se vogliamo, sicuramente tipico di chi proviene dalla profonda provincia della Renania. Un atteggiamento dell’animo spesso confuso con la diffidenza, con una forma di “antipatia”. Ma no, trattasi di timidezza, forma acuta, peraltro, e spesso smentita dai fatti. Ce lo potrebbe raccontare Pepi Cereda, stimato giornalista Mediaset, uno dei suoi interlocutori abituali a inizio, durante e fine gara. Quando Schumacher seppe della sua malattia, lo iniziò a tempestare di telefonate, per farsi “sentire” e provare ad alleviare un destino inesorabile. Fatti e gesti che raccontano tanto, se non l’essenziale, di un essere umano.
Fatti e gesti tenuti nascosti, perché in pasto al pubblico ci va il pilota, la sua macchina, la pista. Costruisce le sue vittorie con la stessa minuzia con cui costruisce i rapporti umani. Per trionfare in F1 non devi solo possedere nervi e tecnica per portare un mezzo a più di 300 orari, ma limitare al minimo il numero di errori. L’assenza di quegli errori determinerà il nome del campione del mondo. E Schumi non sbagliava.
Caratteristiche che lo hanno avvicinato a tanti nomi del passato. Vedi Niki Lauda, quasi connazionale, anche lui fenomenale nell’ottimizzare al massimo le prestazioni della vettura. E poi anche Schumi a fine gara correva tra le braccia di Corinne così come l’austriaco si beccava le invidie dell’intero paddock sapendo che solo lui poteva godere delle attenzioni di lady Marlene.
Un po’ meno “concentrato” sentimentalmente Prost, come Michael fine calcolatore (“Professore” mica per niente, monsieur Alain) ma tecnicamente velocissimo. Similitudini anche con Ayrton Senna. Una, troppo facile, la stessa voglia di vincere, anche a costo di commettere qualche scorrettezza di troppo. Ayrton ne combinava una all’anno a Suzuka, Michael si è portato dietro il peso degli screzi con Damon Hill e Jacques Villeneuve.
Gli episodi del 1996 e 1997, uniti alla cinica doppietta iridata di Mika Hakkinen nel ’98 e ’99, avrebbero mortificato un toro. Non lui, smanioso di vittoria e sempre alimentato da una fame innata, sin da quando, ragazzino, correva sui kart nella pista di papà Rolf. Un timido ragazzotto di provincia capace di conquistare il mondo e di cambiare la vita sua e dei tifosi italiani. Perché se vinci una gara con la Ferrari, ti vogliono bene. Se vinci un mondiale, un posto nel cuore è tuo per sempre.
Buon compleanno, Schumi. Siamo sempre qui. Ad aspettarti.
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