Mike Tyson, l'età dell'uomo

Mike Tyson, l'età dell'uomo

Nato il 30 giugno 1966 a New York, auguri a uno dei pugili più vincenti e controversi di sempre

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“Non posso più farcela, non posso più mentire a me stesso. Non voglio più mettere in imbarazzo questo sport. È semplicemente la mia fine. Questa è la mia fine. Finisce qui…”. L’uomo, qualche minuto prima, si era letteralmente seduto sotto le corde, goffamente, come un tossico all’angolo di un vicolo; uno dei tanti che aveva visto chissà quante volte quando era ragazzino. Quel quadrato di Washington, come qualsiasi altro ring di qualsiasi altra arena del mondo, era diventato il posto meno adatto per lui, che tanti anni prima aveva detto che il ring è il posto più bello del mondo, perché lì sopra un uomo sa sempre quello che gli può capitare. Evidentemente, era arrivato alla consapevolezza di non poter far capitare più nulla a nessuno, nemmeno a uno come Kevin McBride, un ragazzone pallido come la maggior parte dei suoi avi irlandesi; uno che qualche anno prima non sarebbe stato degno neppure di portargli la vestaglia. Invece quella sera di giugno del 2005 festeggiava incredulo e più ricco di quanto fosse appena sei riprese prima; forse ancora tentato di chiedere l’autografo all’uomo che con quelle parole era come se si fosse specchiato nella porzione di vita che aveva trascinato fino a quell’ultimo verdetto, KO tecnico e, invece degli arabeschi del tatuaggio che gli avvolgeva il viso, vi avesse scorto tutti i segni, tutti assieme, di ciò che era stato, che aveva smesso di essere. Nemmeno Dorian Gray deve aver provato un simile disincanto, di fronte al disvelamento del dipinto. Con la differenza che il protagonista del romanzo non aveva mai voluto scrutare fino in fondo alla sua anima; Mike Tyson quella sera aveva cominciato a farlo.

L’infanzia, i record e Cus D’Amato

A dodici anni aveva già messo insieme una cinquantina di arresti per furto e taglieggiamento di negozianti. A venti era diventato il più giovane Campione del Mondo dei Pesi Massimi. Stabilisca il lettore, se ci riesce, quale dei due record sia il più incredibile e si interroghi ognuno, senza rispondere ad altri che a se stesso, se sarebbe stato in grado di non impazzire, al suo posto. Un padre lo ha avuto, non un padre biologico, molto di più: Cus D’Amato, che per gli altri grandi campioni che si sono affidati alle sue cure, potremmo dire che ha indirizzato le loro carriere, a volte facendole rifiorire; a Mike Tyson ha salvato la vita. E quando è morto, nel novembre del 1985, Tyson è quasi impazzito; un’altra volta ancora, potremmo precisare, visto che a diciannove anni gli era già accaduto un numero imprecisato di volte, nei modi più disparati. Con D’amato se ne andava anche l’unica parentesi di serenità e affetto che avesse mai conosciuto in vita sua e la sentenza molto probabilmente è stata confermata dagli anni che sono seguiti; per il resto tutto ciò che sapesse dell’esistenza, in sintesi, era che ciò che potrebbe farti felice: puoi provare a rubarlo, se sei bravo, oppure puoi comprarlo quando diventi ricco.

Il carcere e l’orecchio di Holyfield

 

Lui ai soldi aveva affidato anche una delle missioni più difficili, ovvero quella di uccidere la paura, quando era in carcere a Plainfield, nello stato dell’Indiana. Soldi per i pranzi e le cene che faceva venire dall’esterno, perché aveva paura che attraverso la mensa del carcere potessero avvelenarlo; soldi per i secondini che dovevano tenerlo isolato il più possibile; soldi anche a quei detenuti che si permettevano di insultarlo e di schernirlo, affinché la smettessero perlomeno di bersagliarlo con quei lanci di buste di urina e di escrementi. In carcere aveva conosciuto anche tanti nuovi compagni di viaggio, se ci passate l’espressione, che avrebbero continuato a scortarlo anche una volta uscito: le letture sul pensiero di Mao, su quello di Martin Luther King, di Ernesto Guevara. Nuovi compagni ma sempre quella specie di sorella, accanto: la violenza. Quella che era ancora in grado di accecarlo, nei momenti in cui decideva di prendere il sopravvento. Era cieco, la sera del 28 giugno del 1997, quando con gli occhi annebbiati dalla frustrazione per la piega che l’incontro aveva preso, si ritrovava a masticare un po’ di cartilagine dell’orecchio di Evander Holyfield. Un altro di quelli con cui oggi Mike Tyson si è riconciliato. Cerchi che si chiudono; vicende che compiono traiettorie circolari, perché in fondo la vita altro non è che un eterno ritorno e tutto quello che un uomo deve capire sul modo in cui è stato al mondo, lo capisce solamente compiendo a ritroso il percorso per riconoscere chi è stato e chi è diventato nel frattempo. “Chiedo il funerale più povero del mondo. Nessun abito bello, nemmeno la bara voglio, buttatemi nella polvere. Ma sono sicuro che i pugili del futuro verranno a trovarmi, così come io sono andato sulle tombe dei grandi del passato”. La seconda parte era vera già all’epoca, però, perché la vicenda vede un Tyson giovane ma già celebre recarsi al Cimitero Monumentale di Las Vegas, per rendere omaggio alla memoria di Sonny Liston, il maledetto per eccellenza, ma ancor di più l’uomo rimasto sempre solo, fondamentalmente, anche nei giorni della gloria. Lui non ebbe tempo nemmeno per rifiutarla, la redenzione. Quando il pugile, già campione, si avvicina al custode del cimitero per chiedere dove sia situata la tomba di Liston, l’inserviente, che non può non riconoscerlo ma che finge di non sapere chi sia, gli dice, con tutta l’aria di chi vuole anche suggerire un monito, anche se non richiesto: “Cerchi la tomba di Liston? Semplice: è quella senza fiori”. In un modo o nell’altro, con tanta strada ancora da compiere, oggi Mike Tyson ha compreso anche quella frase.

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