Braida-Galliani, soci e amici per il Milan

Braida-Galliani, soci e amici per il Milan

Prima al Monza e poi in rossonero: storia di un rapporto durato 27 anni che ha arricchito la bacheca della società durante l’era Berlusconi

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Avrebbero potuto chiamarli “Il Gatto e la Volpe”, tanta era l’intesa tra i due quando si apriva la stagione del calciomercato. Perché uno seguiva l’altro e viceversa, la mente e il braccio di decine di trattative andate a bersaglio per il Milan. Ariedo Braida e Adriano Galliani, in rigoroso ordine alfabetico, erano una coppia assortita benissimo, come quelle degli attaccanti di una volta. Dal 1986 al 2013 hanno lavorato assieme, prima che Braida lasciasse la carica di direttore sportivo: un quarto di secolo, comunque, da ricordare.

Dal Monza al Milan

Tra i due, quello con un’esperienza anche da calciatore era Braida, ex attaccante anche in Serie A con il Brescia, il Varese e il Cesena. Addirittura era stato capocannoniere di un campionato di B, sempre con il Varese. Arriva al Milan, Braida, dopo una breve trafila da dirigente con il Monza e l’Udinese. A parte i friulani, è in terra lombarda che germoglia il suo nome, che va ad accoppiarsi, sempre a proposito di Monza, con quello di Adriano Galliani, fidatissimo braccio destro di Silvio Berlusconi. “Il dottore” è il primo amministratore delegato del Milan nella nuova presidenza di “Sua Emittenza”, ma è soprattutto colui nel 1981 aveva chiamato Braida al Monza quando aveva appena smesso di giocare con il Sant’Angelo Lodigiano. Un’amicizia già formata, quindi, e che si rinsalda in rossonero, dove anche grazie alle munifiche tasche di Berlusconi è più facile muoversi sul mercato. Braida diventa direttore generale, il grande tessitore delle manovre da mantenere segrete, l’uomo di cui fidarsi al momento di un acquisto, con Galliani sempre accanto. È l’inizio di un memorabile ciclo di vittorie per il Milan.

I tre olandesi rossoneri

La partenza è lanciata, ma i frutti si vedono solo al secondo anno. È quello con Sacchi in panchina, ma soprattutto con gli olandesi, che da due diventano tre nel 1988. Si comincia con Van Basten e Gullit, uno strappato alla Fiorentina e pagato appena 1,8 miliardi dall’Ajax e l’altro già più famoso, Pallone d’Oro nel 1987 e costato al Milan ben 13 miliardi, per l’epoca un record. Il trittico oranje, quello che entrerà nell’immaginario collettivo di quel periodo di grandi successi, si completa con Franklin “Frankie” Rijkaard, acquistato dallo Sporting Lisbona per 2,5 miliardi nonostante una mezza sommossa dei tifosi portoghesi per impedire il trasferimento. Tanto che, sarà lo stesso Braida a confermarlo, il contratto con l’accordo firmato se lo era messo nelle mutande. La forza dei soldi, che però vanno spesi bene onde evitare clamorosi flop. Tipo l’argentino Borghi, voluto fortissimamente dal presidente Berlusconi, acquistato e mai visto in rossonero perché non compatibile con il gioco di Arrigo Sacchi. Sono gli anni in cui il Milan comunque prende fino a sei stranieri, lasciandone tre in tribuna o mandandoli in prestito altrove, gente che una volta tornata in rossonero lascerà il segno: due esempi su tutti, Zvonimir Boban e Dejan Savicevic, 10 miliardi per il primo e 13 per il secondo. Oppure che crea una rosa gigantesca, inaugurando l’epoca del turnover, con riserve che altrove sarebbero titolari inamovibili (De Napoli, Nava, Gambaro, Di Canio), pagando tantissimo anche per i giovani italiani, come Lentini. Persino le sconfitte possono essere delle occasioni per mettere il mirino su alcuni giocatori: è quello che succede nel 1993, quando dopo averci perso contro in finale di Coppa Campioni, Braida e Galliani vanno dall’Olympique Marsiglia e comprano il difensore-centrocampista Marcel Desailly per 10 miliardi, trasformandolo in un elemento chiave della squadra che vincerà in Italia e in Europa l’anno successivo. Stessa falsariga per Weah, contro cui il Milan non perde (anzi, che elimina in semifinale di Champions), ma che viene strappato al Psg per 13 miliardi nel 1995.

Investimenti sbagliati e il nuovo ciclo Ancelotti

Non è sempre andata bene, comunque, per il duo dirigenziale più vincente nella storia del Milan. A metà degli anni Novanta alcuni investimenti sbagliati dopo l’epopea con Fabio Capello mettono sotto accusa Galliani e Braida, che cominciano ad abusare dei “parametri zero”, i giocatori che, una volta scaduto il contratto, sono liberi senza indennizzo. Il tentativo di ricreare un blocco olandese come dieci anni prima naufraga con Reiziger-Davids-Kluivert-Bogarde, tutti arrivati senza spendere una lira e tutti più o meno rispediti al mittente con perdite. Anche certi giocatori che invece vengono pagati profumatamente deludono: nomi tipo Ziege o Ba, che vincono lo scudetto del 1999 ma da comprimari.

Spese che crescono, ma che invece portano enormi dividendi, sono quelle a cavallo del millennio, quando viene costruito il tridente che andrà a dominare in Europa: Shevchenko (41 miliardi nel 1999), Rui Costa (85) e Filippo Inzaghi (40 + Cristian Zenoni valutato 30), questi ultimi due nel 2001. Sono alcuni dei tasselli del nuovo grande ciclo vincente con Ancelotti in panchina: sempre nel 2001 arriva Andrea Pirlo per 30 miliardi, ma è nell’estate successiva che si completa il capolavoro, con l’acquisto di Nesta per 30 milioni (adesso di euro, col nuovo cambio) dalla Lazio e soprattutto lo scambio alla pari con l’Inter tra Seedorf e Coco. Un colpo da maestro in un agosto, quello del 2002, che porta addirittura Rivaldo, fresco campione del mondo con il Brasile, a zero dal Barcellona. Il fantasista mancino non combinerà granché al Milan, ma anche giocando da fermo metterà lo zampino in più di un’occasione, specie in Champions League, dove i rossoneri tornano a trionfare dopo 9 anni. Un altro brasiliano, più giovane, costato un po’ di più ma per cifre comunque irrisorie (7,5 milioni) sarà l’anno successivo un altro dei grandissimi colpi della coppia Braida-Galliani, che non si lascia condizionare dal nome un po’ strano e sferra l’assalto vincente a Kaká. Inutile specificare quanto e cosa porterà questo ragazzo dalla faccia pulita al Milan. Merito anche di Leonardo, uno dei tanti collaboratori oppure osservatori che hanno affiancato i due dirigenti rossoneri, consentendo di segnalare talenti ancora sconosciuti e quindi meno costosi in anticipo sulla concorrenza.

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Le cessioni dolorose

La Champions vinta nel 2007 è un po’ il canto del cigno della grande epopea rossonera berlusconiana. Da lì in avanti, come in una sorta di onda che si ritrae, le grandi cifre sono quelle in entrata piuttosto che in uscita. Gli acquisti che si dimostreranno realmente validi sono pochissimi, paragonati poi al loro valore. C’è ancora spazio per qualche colpo a effetto, persino insperato come peso specifico, ad esempio Ronaldinho nel 2009. L’ultimo scudetto è del 2011, con trascinatore Zlatan Ibrahimovic, strappato al Barcellona, e due giovani brasiliani: Thiago Silva e Pato, quest’ultimo arrivato ancora minorenne ma poi persosi tra infortuni e problemi personali. Il sipario cala definitivamente nel 2013, quando Ariedo Braida lascia il Milan lasciando un vuoto incolmabile. Difficile trovare un altro grande tessitore delle trattative, un altro conoscitore del mercato internazionale come l’ex attaccante del Varese, che diventerà consulente addirittura del Barcellona. La presidenza Berlusconi è stata grandissima anche per merito di questi due dirigenti che di colpi ne hanno sbagliati pochissimi. Inseparabili, inscindibili come ruolo, tifosi anch’essi del Milan, a volte anche in maniera scomposta ma mai volgare, ciascuno col proprio stile: 27 anni di successi indimenticabili.

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