Leggi Guerin Sportivo
su tutti i tuoi dispositivi
Nel 1990-91 i giallorossi superarono l’Anderlecht nei quarti di Coppa Uefa grazie anche a un suo gol: “A Ottavio Bianchi non interessavano tacco e punta, gli servivano i risultati”
Appassionato, sincero, coinvolgente. Ruggiero Rizzitelli, quando parla della Roma, te la fa rivivere con gli accenti sentimentali di un vero tifoso. Nell’intervista che segue, descrive quella della stagione 1990-91, che vide i giallorossi vincere la Coppa Italia e arrivare in finale di Coppa Uefa, partendo dal vittorioso confronto nei quarti di finale della competizione europea contro l’Anderlecht.
Il 6 marzo 1991, dopo aver eliminato Benfica, Valencia e Bordeaux, affrontavate l’Anderlecht all’Olimpico. Era un avversario da temere?
“Sì, anche se non veniva dal suo periodo migliore. Ma era comunque una squadra che faceva sempre le coppe ed era abituata a giocarle a certi livelli, quindi era temibile e noi, per affrontarla, non ci preparammo bene… di più! A guardare il risultato oggi (3-0, ndr) potrebbe sembrare che sia stata una passeggiata: in realtà noi non gli demmo la possibilità di fare quello che avrebbero voluto”.
A beneficio di chi non l’ha vista, puoi raccontarci come giocava quella Roma?
“Non era una squadra di fenomeni però aveva fatto gruppo e aveva voglia di arrivare in fondo e vincere qualcosa di importante. Quell’anno era arrivato Bianchi, che a inizio stagione era stato chiaro e ci aveva detto: 'A me non interessa tacco e punta, a me servono i risultati. Noi dobbiamo portare qualcosa di importante a questa società'. Noi l’avevamo capito soprattutto quando, cominciando a vincere le partite, vedevamo che aumentava l’autostima e avevamo un’adrenalina incredibile che non ci faceva aver paura di nessuno. Avevamo grinta, cattiveria e voglia di arrivare”.
Vuoi raccontarci il tuo gol?
“Giannini mi dette una palla incredibile: mi aveva visto alle spalle dell’avversario e mi servì d’esterno con un tocco da numero dieci. Io arrivavo in diagonale e calciai di destro, sempre in diagonale, riuscendo a battere il portiere. In quel frangente Giannini fece il Totti della situazione, quello che vede il compagno alle spalle”.
Cosa pensaste quando superaste anche quel turno contro l’Anderlecht?
“Noi partimmo in quell’avventura superando un ostacolo durissimo come il Benfica, che pochi mesi prima aveva fatto la finale di Coppa dei Campioni contro il Milan di Sacchi, anche se tutti ci davano per spacciati. Fu da lì che Bianchi ci disse: “Noi siamo undici contro undici, abbiamo voglia di batterli e possiamo batterli: basta crederci”. Sconfiggendo il Benfica sia all’andata che al ritorno si innescò quel meccanismo di autostima di cui ti dicevo prima che ci portò a superare anche l’Anderlecht. A quel punto abbiamo detto: 'Cavolo, possiamo crederci di arrivare in fondo e vincere questa Coppa!'”.
Chi era il leader in campo di quella squadra?
“Voeller era il leader carismatico. Ma ogni reparto aveva il suo leader. In difesa c’erano Nela, Cervone e Tempestilli, gente che si faceva rispettare. A centrocampo Giannini e Desideri, senza dimenticare il valore che aveva Bruno Conti nello spogliatoio. Era una squadra nata per fare gruppo”.
Quell’anno Dino Viola venne a mancare. Cosa vi tolse la sua morte e cosa vi regalò?
“Inizialmente ci tolse tanto. Nella partita in casa contro il Pisa, quella successiva alla sua morte, eravamo talmente afflitti dal dolore che, nonostante volessimo a tutti i costi vincere per dedicargli la vittoria, non ce la facemmo. Poi successe il contrario: la voglia di dargli quella Coppa ci dette forza. La moglie Flora davvero gliela voleva regalare. Anche se lui non c’era più, sapevamo che ci aspettava a quel traguardo".
Per te ci sono delle similitudini tra quella Roma e questa di Mourinho?
“Secondo me sì. Sia Bianchi che Mourinho sono allenatori che non guardano alla bellezza. E poi, a mio modo di vedere, anche la fase difensiva è una cosa bella. Io quando recuperavo un pallone perso da un compagno e vedevo la soddisfazione nei suoi occhi ero compiaciutissimo. Quella è la forza di una squadra. Del resto un allenatore fa delle scelte anche in funzione degli uomini disponibili: se non ha una squadra votata per l’attacco non deve essere stupido e andare allo sbaraglio. Un tecnico deve essere responsabile e capace a leggere il tipo di calciatori che ha a disposizione”.
Quell’anno andaste in finale in Coppa Italia e Coppa Uefa, mentre in campionato conseguiste un anonimo nono posto. Come impattò la doppia corsa campionato-coppa?
“Considera che all’epoca avevamo una rosa che non era ampia come quelle di oggi, per cui a un certo punto della stagione facemmo una scelta: visto che in campionato non potevamo arrivare più dove volevamo arrivare, decidemmo di puntare sulle coppe. E facemmo bene, visto che arrivammo a due finali. Con una quindicina di giocatori non era realistico puntare a tre obiettivi”
Secondo te ha più spessore tecnico l’attuale Europa League o la vecchia Coppa Uefa?
“Non c’è paragone. Quando si parte dal primo turno col doppio confronto da dentro o fuori significa che dall’inizio non puoi sbagliare. Ci vogliono attenzione, attributi, forza, coraggio: non puoi permetterti di sbagliare partita. Coi gironi di oggi puoi anche perdere due incontri e qualificarti lo stesso. Il fascino di arrivare in finale, in passato, era proprio quello, legato al fatto di rischiare di uscire ad ogni turno. La tensione, sin dall’inizio, era molto diversa”.
Oggi è il compleanno di Rudi Voeller: com’era averlo come compagno?
“Ti racconto questo episodio. Finale di andata di Coppa Italia con la Sampdoria: ero stremato, avevo i crampi anche al cervello. A un certo punto mi si avvicina e mi dice: 'Dai Ruggiero, adesso corro io per te. Tu vai avanti e riposa'. Quel gesto mi dette la forza di reagire, tanto che dopo cinque minuti mi ero ripreso e gli dissi di tornare al suo posto. Gesti che solo un campione può fare”.
Hai un aneddoto da raccontare legato a un suo compleanno?
“Ristorante Fontanone, compleanno di Rudi. Invitato speciale: Renato Zero, che si mise a cantare una canzone per lui. Noi ci guardavamo e dicevamo: ma che canzone è questa? Renato nello spogliatoio lo cantavamo ma nessuno la conosceva. Una canzone bellissima, da commuoversi, ritagliata su Rudi che in quel periodo aveva anche i genitori che non stavano molto bene. Insomma, Renato gli aveva inventato una canzone al momento. Devastante, da brividi”.
Condividi
Link copiato