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All’Inter conobbe Rino Marchesi che lo spostò dall’ala in mezzo al campo. Fu proprio il tecnico lombardo a convincerlo poi a indossare la maglia azzurra.
Salvatore Bagni è stato un perno del centrocampo del Napoli che vinse nel 1987 il primo scudetto della sua storia. Prima dell’esperienza in azzurro aveva anche disputato tre stagioni con l’Inter. In questa intervista da doppio ex, col consueto tono appassionato, estrae dall’album dei ricordi tante istantanee piene di colori che il tempo non ha cancellato.
Salvatore, prima di giocare con Inter e Napoli tu fosti un baluardo del Perugia dei miracoli 1978-79. Ci vuoi raccontare qual era il segreto di quella squadra?
«Erano i tre che non giocavano: il grande Ilario Castagner, che purtroppo è venuto a mancare da poco, D’Attoma e Ramaccioni. Tre persone che, con pochi mezzi, riuscivano a convergere sulle stesse idee. Quel Perugia si fondava su un concetto: prendere giocatori che erano o giovani di prospettiva o delusi dagli anni precedenti, che potevano ritrovarsi in un gruppo affiatato in una città meravigliosa e piena di entusiasmo. Perugia all’epoca ti dava tanto affetto, la gente ti faceva sentire uno di loro. Eravamo così in sintonia che praticamente vivevamo coi tifosi».
Come avvenne il tuo passaggio all’Inter?
«Nell’80-81 retrocedemmo: a quel punto era inevitabile che cambiassi squadra. Io speravo di guadagnare qualcosa col trasferimento ma non avevo capito niente…».
Nei tre anni in nerazzurro ti allenarono Bersellini, Marchesi e Radice: chi di loro seppe valorizzarti meglio?
«Intanto fammi dire che erano tre persone straordinarie. Rino lo sento ancora oggi: persona di altri tempi a cui devo una riconoscenza eterna. Tranquillo, sereno, sapeva come farti star bene. Bersellini mi sopportò i primi mesi che arrivai all’Inter: avevo mia figlia ancora piccola e dormivo poco. Finito l’allenamento rimanevamo io, lui e Onesti a esercitarci su cross e tiri in porta: un’ora tutti i giorni. Sono cose che ti rimangono dentro: era una persona con grandi valori, di un’umanità esagerata. Lui ha sempre creduto in me: lo ripagai nella seconda parte del campionato. Nell’anno con Radice giocavamo con due centrocampisti centrali e due fantasisti sulle fasce, Müller e Beccalossi: un 4-2-4 inusuale».
Qual era il tuo rapporto con calciatori poco inclini al sacrificio come Müller e Beccalossi?
«Con Beck non ho mai avuto problemi. Hansi qualche volta in allenamento lo beccavo: lui aveva il suo modo di giocare elegante, bello da vedere. Era l’unico giocatore al mondo che si faceva la doccia tra il primo e il secondo tempo! Comunque avevamo un ottimo rapporto, ci frequentavamo anche con le famiglie. Una persona buona, mi ha chiamato anche per la partita dei suoi cinquant’anni a Stoccarda. Un tedesco atipico, non potevi non volergli bene».
Come avvenne la tua trasformazione da ala destra a mediano?
«Fu un’idea che venne a Marchesi una mattina in ritiro in Trentino. Non so cosa avesse in testa, ma mi cambiò la vita spostandomi a fare il centrocampista centrale. Riuscì a intravedere qualcosa che aveva intuito solo lui. Ebbe un’idea strepitosa. Fu per merito suo che andai al Napoli».
Togliamo Diego: con quali compagni ti trovavi più in sintonia nel Napoli di allora?
«Con tutti, non ce n’era uno diverso dall’altro. Fuori dal campo non frequentavo nessuno, anche perché io la sera andavo a letto presto. Ci vediamo di più adesso».
I tuoi compagni di reparto erano De Napoli e Romano: ci spieghi Bianchi cosa si aspettava da ciascuno di voi?
«Romano fu la ciliegina sulla torta: giocava davanti alla difesa e mi salvò, perché prima del suo arrivo ero io che occupavo quella posizione. Io e Nando facevamo le mezze ali. Lo prendevamo in giro, gli dicevamo che quando arrivò a Napoli non lo conosceva nessuno e poi vinse tutto. Era vero ma Francesco per noi fu determinante per le sue qualità tecniche: con lui che dettava i tempi abbiamo cominciato a spiccare il volo. Era una sorta di Lobotka!».
La gioia che regalaste voi ai napoletani è come quella che stanno assaporando oggi? O aveva tonalità differenti?
«Erano anni diversi, felici. Anni in cui il miglior giocatore al mondo era arrivato a Napoli: una cosa impensabile da qui ai prossimi duemila anni non solo per la città ma per l’Italia. Lui dava entusiasmo, gioia, carisma, carica. C’era l’eccitazione della prima volta, inaspettata. Solo Diego aveva detto che avremmo vinto lo scudetto ma forse non ci credeva nemmeno lui. Portammo qualcosa di assolutamente nuovo».
Ci racconti un aneddoto che non è conosciuto di quella grande squadra?
«Ce l’avrei una cosa ma è tra ma me, Giordano e il mister. Non lo posso raccontare».
Hai qualche rammarico legato all’esperienza partenopea?
«L’unico è il modo in cui sono andato via. Nel trambusto che ci fu alla fine del campionato perso (1987-88, nda) si sa che quella sera all’hotel Paradiso tutti firmarono liberamente quel comunicato contro l’allenatore. Di notte la società lavorò sui giocatori più debolini e alla fine quattro si tirarono indietro senza avvertire. Fu come se ci avessero accoltellato, una delusione esagerata. Dico la verità: lì mi incazzai abbastanza. La società ci convocò in sede per ascoltarci: io, Garella, Giordano e Ferrario per ultimi. All’ingresso in piazza dei Martiri non c’era nessuno, quando uscimmo dopo un’ora c’erano cinquemila persone che inveivano. Era tutto preparato, uno squallore unico. Ma a Napoli oggi mi amano ancora».
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