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Il 10 luglio 2023 il leggendario tennista campione sull’erba londinese nel 1975 avrebbe compiuto 80 anni: fu simbolo del popolo afroamericano, della lotta all’apartheid, alla guerra e all’AIDS
«Tu per me sei una sfida, una sfida a non avere paura, a essere più libero, e se non lo sarò io, lo saranno i miei figli», sono queste le parole che Arthur Ashe si sente rivolgere il 21 novembre del 1973. Siamo allo Shakespeare Palace di Johannesburg, dove il tennista americano si trova per un incontro con i giornalisti neri in Sudafrica, dove lo stesso Ashe è diventato il primo tennista nero della storia a poter giocare a tennis, negli anni dell’apartheid. Basta questo per capire come, il ragazzo nato in Virginia il 10 luglio del 1943, sia stato molto più di un semplice tennista. Non solo in quanto campione, che chiuderà la carriera con tre titoli Major in bacheca, ma in quanto simbolo di libertà, per citare anche il sottotitolo del libro a lui dedicato da Alessandro Mastroluca. Quasi 50 anni dopo quella giornata allo Shakespeare Palace, Ashe purtroppo non c’è più, spentosi nel febbraio del 1993, cinque anni dopo aver scoperto la positività al virus HIV. Eppure, proprio per le ragioni di cui sopra, abbiamo deciso di ricordare lo statunitense proprio in occasione di quello che sarebbe stato il suo 80° compleanno.
Le testimonianze di quell’epoca raccontano come qualcuno, tra quei giornalisti, fosse convinto che l’arrivo di Ashe in Sudafrica non avrebbe cambiato nulla per i neri. Anzi, avrebbe solamente restituito al paese simbolo della supremazia dei bianchi la possibilità di tornare a giocare in Coppa Davis, dopo la squalifica arrivata dall’ITF l’anno prima. Ma ad avere ragione sarà l’allora trentenne di Richmond: «Il progresso arriva un po' per volta. Quando me ne sarò andato, qualcosa resterà». D’altronde, già negli Stati Uniti Ashe aveva lasciato segni indelebili del suo passaggio. Nel 1963 era stato il primo afroamericano della storia convocato dagli USA in Coppa Davis. Il tutto, giusto cinque anni prima di imporsi nella prima edizione effettivamente “open” del torneo a Forest Hills, dopo una battaglia in cinque set contro l’olandese Tom Okker. Un’annata, il 1968, in cui il destino gli riserverà l’onore, proprio in Coppa Davis, di portare alla squadra americana il punto del successo definitivo, nella finale contro l’India, battendo in tre parziali Ramanathan Krishnan.
Dopo quel successo, tra le altre cose, si renderà anche conto – in seguito ad un viaggio in Vietnam con i compagni di Davis – dell’insensatezza della guerra. Un sentimento perfettamente riassunto da un passaggio nel suo libro del 1981, “Off the court”: «Vedo la mia fuga dalla guerra come una delle grandi mancanze della mia vita. Potrebbe suonare barbarico, disumano,» si legge, «ma ho sempre voluto andare a combattere. Forse è un qualche tipo di desiderio di morte. Credo che ogni uomo desideri segretamente un’opportunità di andare a combattere e tornare con tante medaglie e solo qualche graffio. La guerra è il simbolo definitivo della mascolinità occidentale. Purtroppo». È fortissimo, in fondo, anche il richiamo dei campi da tennis, che probabilmente gli salvano la vita, oltre a renderlo leggenda. Perché nel 1970, per Ashe, arriva il secondo Slam – l’Australian Open vinto in finale su Dick Crealy. Al Roland Garros, invece, al massimo due quarti di finale tra il 1970 ed il 1971. Le grandi doti capacità negli scambi brevi ed anche nelle volée, e la sua enorme creatività, raggiungeranno però una nuova vetta il 5 luglio del 1975, nella finale di Wimbledon contro Jimmy Connors. «Ne ho viste tante da non ricordare una finale più sorprendente sul Centre Court», dirà Gianni Clerici. Uno stupore derivato non solo dal dominio dei primi due set della testa di serie numero, grazie ad un tennis vario, fatto di servizi esterni e continui cambi di ritmo con lo slice, ma anche dalla reazione nervosa per respingere la rimonta del combattente Jimbo. Sotto 1-3 nel quarto set, Ashe si aggiudica cinque degli ultimi sei giochi, laureandosi campione ai Championships col punteggio di 6-1 6-1 5-7 6-4. Il suo best ranking, nel 1976, sarà di numero 2. Il carisma di chi prende posizione e traccia una strada da seguire, fino a precorrere i tempi, sono sempre state tuttavia qualità da numero 1, per Ashe. Anche fuori dal campo, anche nella malattia. Rompendo, quasi un anno prima di morire, un altro tabù quando, nel 1992, rivelò al mondo di essere sieropositivo dopo una trasfusione di sangue infetto, dimostrando così al mondo come l’AIDS potesse colpire chiunque, non solo tossicodipendenti o omosessuali. Dando dunque un’ultima prova straordinaria di coraggio. Più di un qualcosa, infatti, è rimasto del campione classe 1943, anche a quasi 30 anni dalla sua scomparsa. Qualcosa che di lui vive ancora oggi, anche su quel Centre Court dove domenica si conoscerà il nome del campione del 2023 a Wimbledon.
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