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Il proprietario della Sampdoria dei grandi trionfi è rimasto legato all'immaginario del calcio italiano degli anni Ottanta e Novanta
Salutava la folla agitando l’elegante cappello di panno morbido, sotto il quale indossava sempre il medesimo sorriso bonario, da romano garbato e socievole ma tutt’altro che caciarione, naturalmente incline alle buone maniere.
Se nella Capitale era nato, a Genova s’era fatto uomo, in tutte le accezioni possibili, Paolo Mantovani. Poi era diventato imprenditore, nel ramo petrolifero, quindi dirigente in ambito calcistico.
A Genova avrebbe cambiato la storia calcistica cittadina, a beneficio del club fino al suo avvento meno blasonato, ovvero la Sampdoria, anche se in realtà si era fidelizzato al calcio genovese attraverso il Genoa, con tanto di sottoscrizione di un abbonamento biennale, richiesto dal presidente genoano dell’epoca, Berrino, per evitare la cessione di Gigi Meroni. Poi Meroni al Torino ci finì lo stesso e Mantovani entrò, quasi per ripicca e per merito di una domestica accesa tifosa sampdoriana, la signora Gianna, a far parte dell’ufficio stampa blucerchiato. Leggenda vuole che fosse così meticoloso da tenere una specie di “registro di classe” con voti e giudizi sui vari cronisti. Forse non del tutto leggenda, in ogni modo quella prima esperienza termina presto: troppi sprechi, per la sua mentalità, nel mondo del pallone.
La presidenza e gli acquisti top
Si dedica ad affari sempre più lucrosi nel ramo petrolifero, poi come un lampo nel buio di un’agiatezza ammantata di discrezione, acquista la Sampdoria il 3 luglio del 1979, per concedersi anche la visibilità che nulla come il calcio offre a un imprenditore di successo. Da quel momento, è come se il club vivesse una seconda nascita: il mondo blucerchiato, dopo un paio di stagioni faticose, vede arrivare acquisti di grido impastati col lievito delle ambizioni: Brady, Vierchowod, il delicato Trevor Francis del quale resterà innamorato nonostante i tanti infortuni, due giovani promettentissimi strappati alla concorrenza: Roberto Mancini e Gianluca Vialli. Tutti, nel tempo e fino ai giorni nostri, parleranno di Mantovani come di un papà per quanto riguarda i rapporti umani e di un visionario per gli obiettivi che si pone.
I più maturi tra i tifosi sampdoriani, che avevano visto il club galleggiare spesso tra la A e la B, hanno la percezione di una indiscutibile crescita di rango, di una scalata ai piani alti del calcio italiano. Neppure il più ottimista fra loro, però, avrebbe mai potuto pensare alla conquista, in un fazzoletto di stagioni, di tre Coppe Italia, una Coppa delle Coppe, lo storico scudetto del 1991, la finale della Coppa dei Campioni persa l’anno seguente contro il Barcellona all’ultimo granello di clessidra prima dei rigori, polverizzato dalla famigerata punizione di Koeman.
Il 14 ottobre del 1993, consumato da un male rapido e inesorabile, Mantovani saluta il mondo da uomo ancora giovane e da dirigente che ancora moltissimo avrebbe saputo dare alla Sampdoria e al movimento calcistico del nostro Paese. L’indomani, “Il Secolo XIX” titola - È morto Mantovani, viva Mantovani -.
A trent’anni esatti dalla sua scomparsa, rispolveriamo a beneficio dei cuori blucerchiati un’istantanea, quella del 19 maggio 1991: la Sampdoria è matematicamente Campione d’Italia; Mantovani per la commozione non riesce a rispondere alle domande di Gianni Minà; sul terreno di Marassi scende anche un raggiante Paolo Villaggio, storico tifoso sampdoriano. Mantovani è stato anche l’unico megadirettore a far felice il ragionier Fantozzi.
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