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Il 16 novembre 1963 i rossoneri di Cesare Maldini persero la grande chance intercontinentale contro i brasiliani orfani di Pelè
Cose dell’altro mondo: non c’è altra definizione possibile per le trasferte che le squadre europee affrontavano per disputare le gare d’andata o ritorno della vecchia Coppa Intercontinentale, quella che consegnava al club vincitore il dominio del pianeta.
Anni Sessanta, distanze che per la maggior parte degli uomini era possibile soltanto supporre, mentre pochi le percorrevano o, per meglio dire, le sorvolavano, come quel Milan Campione d’Europa che nell’autunno del 1963, dopo aver messo apparentemente al sicuro la vittoria del trofeo con un perentorio quattro a due a San Siro il 16 ottobre - gol di Trapattoni, Amarildo due volte e Mora, a fronte di una doppietta di Pelé -, tre settimane dopo intraprendeva la sua discesa agli inferi, direzione Maracan?, per disputare il ritorno contro il Santos di “O Rei”, che per ironia della sorte si era esibito a Milano, riscuotendo gli applausi scroscianti del pubblico italiano, ma che non sarebbe stato poi presente nella gara di ritorno.
Se Gianni Rivera era Dante, la selva era illuminata dai riflettori del grande stadio del quale si favoleggiava in ogni angolo del pianeta, molto più capiente di com’è ora; Giovanni Lodetti l’infaticabile Virgilio che accompagnava di corsa il Golden Boy coprendogli le spalle, ma non ci sarebbe stato alcun paradiso da raggiungere, perché Beatrice quella volta era una mulatta che se ne sarebbe andata a festeggiare un mondo capovolto, dimenandosi al ritmo dei fischi di Lucifero, che per l’occasione indossò una giacchetta nera da arbitro: Brozzi, un cognome italiano per sgambettare i rossoneri verso un epilogo in cui i peccatori sentirono i cori angelici e i meritevoli riuscirono soltanto a risalire sulle scalette dell’aereo per un oceano di ritorno, con un rosario di tacchetti avversari da sgranare tra ecchimosi ed ematomi.
Ismael e Almir, quest’ultimo il più rissoso di tutti, nonché il sostituto di Pelé, sembrano avere a cuore solamente la mattanza nei confronti dei Campioni d’Europa. Il 14 novembre del ‘63, centocinquantamila diavoli soffiano sulle maglie rossonere tutto il risentimento dovuto alla consapevolezza di una manifesta inferiorità: il Milan, come in altre decadi della sua storia, sta portando in giro per il mondo l’eccellenza del football italiano. Oltretutto, anche in quella gara di ritorno va sul doppio vantaggio: Altafini - Mora, in un pugno di giri di lancetta. Poi, sul cielo di Rio si addensa una pioggia tropicale; si condensa sul terreno di gioco una preordinata rissa, nel mezzo della quale il giudice chirurgicamente punisce la protesta delle vittime, chiudendo l’occhio ipocrita sulle entrate dei carnefici.
In un illogico secondo tempo, il Santos la ribalta, fino al 4 - 2 finale. Nel 1963 non ci sono i calci di rigore per sciogliere il nodo del destino di un trofeo. Nel 1963 bisogna rigiocare la finale una terza volta, con il regolamento che è come una pianta nata storta, perché lo spareggio, a distanza di 48 ore, per stortura regolamentare si gioca alternativamente in Sudamerica e in Europa, con alternanza valida anche se la “bella” un anno non viene disputata.
Sessant’anni fa oggi, il 16 novembre del 1963, nello stesso stadio e con lo stesso arbitro va in scena la terza, dirimente finale. Il Milan indiscutibilmente più forte sa di essere inesorabilmente condannato: Luis Carniglia preserva Rivera, in porta va Balzarini, che poi finirà in ospedale per un’entrata di Almir, al posto di Giorgio Ghezzi. Con un rigore inesistente che Almir si procura dopo un impatto banale con Cesare Maldini e che Dalmo Gaspar trasforma, il Santos vince la Coppa Intercontinentale, il trofeo che meno ha meritato nel corso della sua intera storia.
Lasciarono ogni speranza sul terreno del Maracan?, i rossoneri che vi entrarono consapevoli di essere migliori; furono costretti a rinunciare al mondo, ma soltanto dopo averlo meritato.
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