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Due scudetti con la Juventus e poi un anno e mezzo in azzurro: «Non ho fatto bene, con Sarri non è mai scattato l’amore»
Con la Juventus ho contribuito a vincere due scudetti e sono stato protagonista. Con il Napoli non è stato così, purtroppo. Mi sarebbe piaciuto essere protagonista e lasciare il segno anche lì, ma non ci sono riuscito. La differenza tra le due esperienze è tutta lì». Emanuele Giaccherini ha vestito la maglia della Juventus dall’estate del 2011 al giugno del 2013: ha legato il suo nome a due titoli vinti dalla squadra guidata da Antonio Conte. A giugno del 2016, dopo gli Europei, giocati da protagonista con la maglia azzurra, si trasferisce a Napoli. Con gli azzurri gioca una stagione e mezza, senza però trovare continuità di rendimento. «Purtroppo speravo di potermi ritagliare più spazio, ma non è stato così. Mi sono dovuto accontentare di piccoli spezzoni di gara».
Due anni a Torino, poco meno a Napoli, qual è la principale differenza che divide queste due piazze?
«La differenza è legata alla mentalità. Al Napoli, almeno quando c’ero io, non c’era la stessa mentalità che ho registrato alla Juve. Una mentalità rigida, fino alla fine: fino alla vittoria finale e che ti permette di saper gestire anche i momenti più difficili. A Napoli invece, a mio avviso, forse c’era troppa esaltazione in caso di vittorie ed eccessiva depressione quando si perdeva. Fortunatamente per i tifosi azzurri, ho visto che le cose sono cambiate lo scorso anno».
A Napoli non è scoccato il feeling con Sarri?
«Non ho avuto un grandissimo rapporto extra campo con lui. Era un tecnico che guardava tantissimo il lavoro sul campo, ma a livello umano non curava troppo il rapporto con i giocatori. Dal punto di vista professionale, non ho avuto una grande considerazione da parte sua. Io venivo da un Europeo straordinario e mi aspettavo sicuramente qualcosa in più. Magari sarà dipeso anche da me, però lui aveva un modo di intendere il calcio troppo rigido e vincolato a un ristretto numero di calciatori. Magari io e tutti quelli che rimanevano di solito fuori, abbiamo sbagliato qualcosa e non gli davamo quello che chiedeva, ma alla fine è andata così».
Dell’esperienza a Napoli, cosa le è rimasto dentro?
«L’affetto dei tifosi. Unici. Nonostante non fossi un titolare, mi hanno sempre sostenuto, amato e fatto considerare importante. Mi hanno dato rispetto e riconoscenza. E poi ho lasciato anche tanti amici. Ho creato tanti rapporti a Napoli. Una città meravigliosa, che ti entra nel cuore e nella quale è bellissimo vivere. I tifosi sono unici».
E dal punto di vista calcistico?
«Un terzo posto conquistato, e un’esperienza che alla fine mi ha fatto maturare a livello caratteriale. Troppo facile ricordare solo le cose che vanno bene. Dai momenti negativi si cresce e si matura. E l’esperienza a Napoli mi ha fatto maturare. E poi entrare nel San Paolo…».
Che esperienza è stata?
«Unica. Io l’ho provata nelle gare in cui ho giocato dall’inizio. Quando ho segnato il gol al Genoa in campionato, ho sentito un’esplosione. Uno stadio che ti trascina. Capisci la differenza che c’è tra Napoli e tutte le altre piazze. Il pubblico ti regala qualcosa in più, c’è poco da fare».
Tra i suoi ex compagni, con i quali ha instaurato un rapporto più forte?
«Sicuramente con Maggio e Gabbiadini. Abbiamo condiviso tanti momenti insieme, anche extra campo. Due persone splendide, con le quali vivevo anche vicino. Maggio, poi, mi ha aiutato molto anche nei momenti di difficoltà».
Passiamo alla Juventus, e torniamo a quella mentalità che aveva precedentemente descritto. è l’arma in più del club bianconero?
«Io quando sono arrivato alla Juve si respirava un’aria negativa: la squadra veniva da due settimi posti. Ma tutti avevamo la sensazione che stava cambiando qualcosa. La Juve era ripartita da zero. Cambiò tante figure all’interno: dall’allenatore, Conte, ai medici, ai fisioterapisti, fino ai magazzinieri. Avevamo la sensazione che stesse partendo un nuovo ciclo: c’erano campioni importanti, come Buffon, Del Piero, Chiellini, ma c’era soprattutto alle spalle una società importante».
Come influiva la società sul vostro modo di lavorare?
«Ti dava la sensazione di essere in un club dove la sconfitta non era prevista. Certo, nel calcio vince solo una squadra, ma la mentalità era portata verso la vittoria».
Se con Sarri il feeling non è scoppiato, con Conte le cose sono andate diversamente?
«La fortuna dei giocatori la fanno soprattutto gli allenatori. Con Conte sentivo la stima e la fiducia. Lui mi ha voluto fortemente alla Juve, andando anche contro tutti. Anche contro una società che magari preferiva altri giocatori. Lui mi avrebbe voluto già al Siena, ma in quell’occasione ho preferito rimanere al Cesena e giocarmi le mie carte in Serie A e ho fatto una bella stagione. Poi, una volta passato alla Juve, il mister mi ha chiamato nuovamente. E so che quando i bianconeri mi hanno ceduto al Sunderland, lui ha fatto di tutto per tenermi alla Juve».
La più bella partita giocata con la maglia della Juventus?
«Ne ho giocate diverse (ride, ndr.). Ne ricordo soprattutto una, in Coppa Italia contro il Bologna. Feci gol, dopo una bella serpentina e fu la gara nella quale Conte coniò il termine “Giaccherinho”, dicendo che se fossi stato preso da un club straniero ci sarebbe stata un’altra considerazione nei miei confronti. Probabilmente intorno al mio nome, anche perché venivo dalla provincia, c’era sempre un po’ di scetticismo. Quello fu il primo, vero squillo, che diedi ai tifosi e alla società».
E con il Napoli, c’è una gara da ricordare?
«Contro lo Spezia in Coppa Italia: feci un gran gol al volo sul secondo palo. Purtroppo, come dicevo, a Napoli mi dovevo accontentare soprattutto degli spezzoni. Ma quella partita giocai molto bene».
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