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Il centrocampista, che giocò l’amichevole contro il Bayern, ricorda il gol di Como: «Salvai la Lazio e resi felice Tommaso»
Il primo confronto tra Lazio e Bayern Monaco risale al 17 settembre del 1974. I biancocelesti di Maestrelli, che si erano pochi mesi prima laureati campioni d’Italia, affrontarono i tedeschi campioni d’Europa in un match amichevole. Da una parte la Lazio di Pulici, Wilson, Chinaglia, Frustalupi e Re Cecconi, dall’altra il Bayern Monaco di Maier, Beckenbauer, Muller, Hoeness. Ad assistere alla sfida c’erano circa 60.000 spettatori. «Quella sfida me la ricordo molto bene - dichiara Roberto Badiani, ex centrocampista di quella Lazio -, fu uno degli ultimi incontri prima dell’inizio del campionato. Fu un modo per testare la condizione della squadra a poche settimane dal via della stagione e per confrontarsi con una big del calcio europeo». I tifosi della Lazio aspettano con ansia questa sfida. I biancocelesti, che hanno trionfato nel campionato, portando a casa il primo scudetto della loro storia, non potranno disputare la Coppa dei Campioni, a causa della squalifica inflitta dall’Uefa dopo il caos accaduto la stagione precedente nel match contro l’Ipswich Town. «Io non c’ero, ma mi hanno raccontato che in campo e negli spogliatoi è accaduto di tutto».
Lazio-Bayern Monaco rappresentò per voi un assaggio di Coppa dei Campioni?
«Parliamoci chiaro. Fu una bella ingiustizia. Io capisco tutto, ma una punizione di questo tipo non c’è mai stata e poi non mi sembra si sia più vista. Era molto più logico punire il club con una multa, oppure con la squalifica del campo. Non eliminando la Lazio da tutte le competizioni europee».
Le è dispiaciuto non disputare la Coppa dei Campioni?
«Sarebbe stato stimolante confrontarci in un palcoscenico così: capire il nostro livello al cospetto delle squadre più importanti. Arrivando alla Lazio ho capito che la mia carriera era decollata. Sicuramente la Coppa dei Campioni sarebbe stata una ciliegina in più sulla torta».
Torniamo a quel Lazio-Bayern Monaco...
«Sono passati tanti anni, ma ricordo bene l’emozione di affrontare la squadra che aveva vinto la Coppa dei Campioni l’anno precedente. Lo stadio era pieno. Io non ero abituato a vivere serate così. Fu molto suggestivo. Anche se poi la gara era un’amichevole. E vuole sapere da cosa si capisce?».
Da cosa?
«Dal fatto che Franzoni, l’uomo che pareggiò per noi, entrò nel secondo tempo al posto di Chinaglia. E Giorgio non si lamentò».
Ma le cronache dell’epoca parlano di un problema fisico...
«Sarà... ma credo che se fosse stata una gara decisiva di campionato, sarebbe rimasto in campo».
Insieme a Franzoni entrò in campo anche lei.
«Al posto di Nanni e con Vincenzo D’Amico in campo. Evidentemente Maestrelli aveva bisogno di un po’ più di equilibrio. Le mie caratteristiche erano diverse da quelle di Vincenzo. Ma spesso venivamo messi in contrapposizione».
Maestrelli la fece giocare spessissimo.
«Il mister fu molto chiaro con me e io lo apprezzai tantissimo. Mi disse che mi voleva alla Lazio perché sapeva che non ero uno che rompeva le scatole in spogliatoio e che si faceva sempre trovare pronto quando serviva. “Appena capiterà l’occasione, ti metterò”, mi disse. E mi fece capire che mi aveva seguito tantissimo nell’ultimo periodo. Parole che mi entrarono nel cuore. E fu di parola: apprezzò il modo in cui mi allenai e all’esordio in campionato con il Cesena mi fece giocare dal primo minuto».
Titolare nella Lazio campione d’Italia.
«Non me lo aspettavo: venivo dal Livorno, dalla Sampdoria. Ero abituato a giocare in squadre che lottavano per non retrocedere. Arrivare alla Lazio ed essere titolare nella squadra che aveva vinto lo scudetto fu straordinario. Maestrelli è stato un maestro: un padre, una persona eccezionale. E sono contento di una cosa...».
Quale?
«Di avergli regalato una delle gioie più grandi, segnando quel gol a Como che valse la salvezza. Lui era tornato da poco dopo la malattia. Credo che qualcuno lassù abbia voluto che io ripagassi la fiducia che aveva avuto in me scegliendomi, con quel gol. È stato il destino: quella palla fece un salto strano e arrivò precisa verso di me. Ho una foto con Maestrelli a fine partita: io con le lacrime agli occhi e lui sorridente. Una foto che rispecchia perfettamente quel momento straordinario».
Come si è trovato in quello spogliatoio?
«Io benissimo. Mi ricordo le partite in famiglia durante gli allenamenti: botte da orbi, ma allo stesso tempo si respirava l’essenza stessa della passione per questo sport. Come da bambini volevamo sempre giocare a calcio, anche lì, nonostante le divisioni, le liti, quando entrava in gioco il pallone, ci trasformavamo. In allenamento, mentre nelle altre squadre si passavano ore a fare la tattica, noi facevamo due giri di campo e poi entrava in scena il pallone. Ma questo non vuole dire che tatticamente non fossimo preparati. Maestrelli fu il primo a giocare all’olandese. Le altre squadre erano forse più organizzate, noi eravamo un gruppo di ragazzi di grande temperamento, attaccatissimi a Maestrelli».
Ha qualche episodio da raccontare su quel gruppo?
«Io venivo da squadre tranquille, sono arrivato qui e tutti avevano la pistola. Ricordo gli scherzi fatti a Recchia, l’autista del pullman: qualcuno lo minacciava con l’arma, dicendogli di correre di più per arrivare prima, o le volte in cui si sparava a Tor di Quinto alla fine degli allenamenti. Io non ero preparato: la prima volta, eravamo all’hotel che ci ospitava in ritiro, mi dissero di andare a tirare su le bottiglie per permettere loro di tornare a sparare. Io le rimisi in piedi e dopo pochi secondi partirono i colpi, senza darmi il tempo di allontanarmi. Io feci in tempo solo a nascondermi dietro una collinetta vicina. Mi ca**i sotto. Tornai in hotel bianco in faccia. Dalla volta successiva imparai la lezione».
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