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Il brasiliano è stato un centrocampista eccezionale sia con il Corinthians che con la nazionale brasiliana, inventando un sistema di "autogestione" chiamato "democrazia corinthiana". Deluse, non per colpe sue, in Italia
Pochi calciatori hanno saputo incarnare il mito come Socrates: centrocampista e guida spirituale, capitano di un Brasile sfortunato e laureato in medicina, del resto con quel nome non potevano esserci alternative alla grandezza.
Morto prematuramente come si confà appunto a tutti i miti, ad appena 57 anni nel 2011, vittima di un'infezione intestinale e di uno choc settico dovuto a una cirrosi epatica che l'aveva minato in precedenza. Socrates nacque il 19 febbraio 1954.
Barba e capelli lunghi, andatura non velocissima ma grande visione di gioco, Socrates abbiamo avuto il piacere e l'onore di vederlo anche in Italia seppur per una sola stagione. Nella città del Rinascimento, Firenze, e con la maglia viola della Fiorentina, segnando 9 gol in 33 partite in una stagione balorda con due allenatori e un deludente nono posto, non certo per colpa sua.
La sua squadra del cuore e dell'anima però è stata il Corinthians, che curiosamente poche ore dopo la sua morte avrebbe conquistato il campionato brasiliano. Per tre volte invece quando Socrates era calciatore i bianconeri di San Paolo, squadra operaia per eccellenza, "Una tifoseria che possiede una squadra" come da definizione, avevano vinto il titolo Paulista.
Il tutto attraverso il sistema della "democrazia corinthiana", cioè la trasformazione di una squadra di calcio in una sorta di gruppo senza gerarchie, con le decisioni (tutte) prese collegialmente: dall'orario dei pasti all'andare o meno in ritiro. Per il resto, John Lennon e Che Guevara come punti di riferimento, più qualche sigaretta e qualche bicchiere di troppo, compensati da una personalità incredibile in campo.
Nato in una famiglia poverissima, O Doutor è riuscito comunque ad avere una carriera e una vita di tutto rispetto, pallone a parte. Impegnato politicamente a sinistra, era un'assoluta mosca bianca specie paragonato ad altri enormi talenti del calcio brasiliano.
"Ho dovuto diventare un bravo giocatore per necessità. Per prima cosa sono un tipo impaziente. Secondo, più irraggiungibili sembrano le mete, più ci si sente stimolati. Giocavo a calcio, ma stavo anche per diventare medico. Da me si aspettavano che fossi il più ingegnoso di tutti. Se non avessi studiato Medicina sarei stato un giocatore più limitato".
Rimane il calciatore, comunque, un omone di 1.92 che sul campo giganteggiava specie quando circondato, come con il Brasile, da un gruppetto inarrivabile di talento. Impossibile dimenticare la grazia con cui segnò all'Italia il gol del momentaneo 1-1 nella celebre partita risolta da una tripletta di Paolo Rossi, la falcata leggera pur essendo alto e la finta per sbilanciare Zoff e infilarlo da una posizione non semplice.
Socrates era il capitano di quel Brasile che se non avesse incocciato contro di noi avrebbe senza dubbio vinto quel Mondiale. Assieme a Cerezo, Junior, Falcao e Zico formava un centrocampo che univa qualità e quantità, ciascuno a dare del tu al pallone. Rimarrà per sempre il rimpianto di una vita, più ancora del mondiale 1986 perso ai quarti di finale ai rigori contro la Francia.
“Quel ragazzo dovrebbe giocare di schiena, con il tacco che ha”, la benedizione di Pelé quando ancora Socrates era un giovane centrocampista già leader del Botafogo, prima ancora di andare al Corinthians, e O Rei un fresco ex-calciatore.
Ogni gol festeggiato a pugno chiuso, la presenza mai banale né in campo né in spogliatoio. E no, non ce ne sono stati altri come Socrates, morto quando già era tornato ad essere un medico.
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