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L'ex centrocampista racconta il fascino della sfida tra biancocelesti e bianconeri
Cosa rappresentano Lazio e Juventus per me? Probabilmente gran parte della mia vita calcistica. Sarò per sempre grato all’Udinese che mi ha lanciato in serie A e ha permesso di farmi notare nel grande calcio, ma gli anni alla Lazio e quelli alla Juventus sono stati il culmine della mia carriera. Ho vissuto esperienze straordinarie che mi hanno forgiato come calciatore e come uomo. Che non dimenticherò mai». Giuliano Giannichedda è uno dei doppi ex di Lazio e Juventus. Due avventure importanti; due storie calcistiche che gli hanno permesso di vincere e di assaporare ogni tipo di sensazione: la gioia per i successi, la delusione per aver visto crollare i due progetti sui quali aveva scommesso e la soddisfazione di aver preso parte alla ricostruzione. «Nell’estate del 2004 alla Lazio cambiò tutto: c’era il rischio che il club potesse fallire e solo l’intervento di Lotito permise di evitare il crollo. Molti andarono via, alcuni vennero ceduti. Io fui tra quelli che decise di rimanere. La stessa situazione l’ho vissuta l’estate del 2006 alla Juventus, quando ci fu il processo Calciopoli e la retrocessione in serie B. Anche in quel caso decisi di restare a Torino e di iniziare un nuovo progetto».
Cosa nascondono queste due decisioni. La voglia di non mollare, di dare il proprio contributo?
«Due situazioni diverse. Alla Lazio ero legato da un vero affetto: un po’ perché sono nato nel Lazio, un po’ perché il club mi ha portato nel grande calcio. E poi avevo un rapporto straordinario con i tifosi. Mi hanno sempre voluto bene e in quel momento ho deciso di dare un segnale. Non potevo abbandonare la nave. Altri hanno fatto scelte diverse, alcuni sono stati anche costretti a lasciare, per permettere alla società di guadagnare qualcosa. Ma io parlai con i dirigenti della Lazio e diedi la mia disponibilità. E alcuni seguirono la mia scelta».
Alla Juventus invece?
«Ero a Torino da solo un anno. Quando ci fu la sentenza che sancì la retrocessione del club, venne organizzata una riunione. Anche li ci fu qualche giocatore che venne ceduto e ripartì da altri club importanti di serie A. Ma quando fai parte di uno spogliatoio così importante e vedi gente come Del Piero, Buffon, Nedved, che accettano di scendere in B, come fai a non seguirli? Ecco, la differenza forse fu proprio quella. Alla Lazio io fui uno dei senatori, che poi trascinò altri. Alla Juventus ho seguito l’esempio di alcuni giocatori molto rappresentativi».
La Lazio acquista Giannichedda e Fiore l’estate del 2000, dopo aver vinto lo scudetto, ma voi raggiungete Roma solo un anno dopo. Fu difficile restare a Udine, sapendo di essere già sotto contratto con la squadra campione d’Italia?
«In realtà no. Essere scelti dalla squadra che aveva appena vinto lo scudetto fu una soddisfazione straordinaria. E non fu difficile restare ad Udine: da una parte infatti c’era la voglia di dimostrare al club che aveva speso tanti soldi per te, che aveva fatto la scelta giusta; dall’altra la possibilità di regalare ancora qualcosa ad una società che ti aveva dato l’occasione di emergere e di farti conoscere nel grande calcio. Diciamo che l’unico momento di ansia fu verso la parte finale della stagione. In quel momento non vedevo davvero l’ora di arrivare a Roma».
La prima stagione alla Lazio non fu particolarmente positiva...
«Ci fu il cambio di allenatore tra Zoff e Zaccheroni e la squadra era soggetta a troppi alti e bassi. Quando si cambia un allenatore vuol dire che le cose non vanno per il verso giusto. Con Zaccheroni partimmo bene, poi abbiamo avuto una flessione: ma successero tante cose. Problemi societari, infortuni, la squalifica di Stam per doping, tanti match sfortunati. Eppure arrivammo ad un passo dalla qualificazione in Champions League. Peccato perché ricordo che in casa eravamo praticamente imbattibili».
Possiamo dire che con Mancini, Giuliano Giannichedda ha vissuto i due anni migliori della sua carriera?
«Fu tutta la Lazio a crescere e a riemergere nuovamente. Quelle due stagioni rappresentano al cento per cento, quello che può fare un gruppo quando è unito e viaggia verso un’unica direzione. Furono due anni difficili a livello societario: andò via Cragnotti, ci furono tanti problemi e arrivavano notizie preoccupanti. Anche noi abbiamo avuto problemi con il pagamento degli stipendi e tante altre vicissitudini. Ma in campo la squadra era super unita. Mancini fu bravissimo a tenere il gruppo unito e i risultati furono dalla sua parte».
Due stagioni, una Coppa Italia e una qualificazione in Champions League...
«Eravamo un gruppo di giocatori forti e di amici. Ancora oggi ho dei legami con tanti componenti di quella squadra».
Cosa vi ha dato Roberto Mancini?
«Era agli inizi, si capiva che aveva voglia anche lui di crescere insieme alla Lazio. Era un esteta del bel gioco e soprattutto un grande gestore dello spogliatoio. Dal punto di vista tecnico poi, eravamo una bella squadra. E i risultati arrivarono».
Cosa ricorda della doppia finale con la Juventus in Coppa Italia?
«La grande convinzione che avevamo: eravamo sicuri di poter vincere quella Coppa. E poi partivamo sempre almeno 1-0, avendo Stefano Fiore con noi. Quando affrontava la Juve segnava sempre».
L’estate del 2004 però, Fiore lasciò la Lazio...
«Per la prima volta le nostre strade si separarono. Fui molto dispiaciuto: ho sempre considerato Stefano come uno dei centrocampisti italiani più forti e completi e poi perchè avevamo sempre giocato insieme. Ma nel calcio può succedere. Comunque siamo sempre rimasti in ottimi rapporti. Lui non avrebbe voluto lasciare la Lazio: fu costretto».
Lei invece rimase.
«Altri sarebbero rimasti, ma purtroppo la società ebbe delle esigenze e dovette accettare delle offerte. Io ho deciso di restare perché non me la sentivo di andare via in un momento come quello. Volevo essere sicuro che la Lazio fosse ripartita e volevo dare il mio contributo. Partimmo con enormi difficoltà: ricordo il ritiro in Giappone con una decina di giocatori e tanti giovani della Primavera. Ma poi alla fine abbiamo fatto bene e nella mia ultima stagione alla Lazio ci siamo tolti delle belle soddisfazioni. Partendo dal derby del 6 gennaio: indimenticabile».
Quando Papadopulo le disse che avrebbe giocato in difesa, cosa ha pensato?
«Che purtroppo era la scelta più sensata. Ero rimasto solo io (ride ndr.). In quella settimana perdemmo un difensore al giorno e rimase solo Talamonti. Il mister mi chiese se me la sentivo e io accettai. Alla fine si trattò solo di arretrare di qualche metro rispetto a quello che facevo solitamente. Andò benissimo, e giocai altre partite in quel ruolo».
L’estate del 2005 lascia la Lazio per la Juventus.
«Sono arrivato a Roma in una squadra fortissima, che aveva vinto da poco lo scudetto e che giocava la Champions League stabilmente. Dopo quattro anni ci fu la chance di proseguire questo cammino di crescita in un club importante come la Juve. E accettai. Ho giocato due anni, ho vinto uno scudetto, che sul campo ci siamo meritati, e poi ci fu la stagione della serie B, dove stravincemmo il campionato».
Per uno che aveva vinto lo scudetto (poi tolto dal processo Calciopoli ndr.) l’anno prima, cosa rappresentò quel campionato di serie B?
«Due mesi prima eravamo in campo a festeggiare lo scudetto, poi ci siamo ritrovati a Rimini in B. Fu come tornare indietro ad un calcio antico, fatto di sentimenti e di maggior passione. Ma fu bello partecipare a quella cavalcata, che ha permesso alla Juve di tornare nel calcio che conta».
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