Quando Juventus-Fiorentina incoronò i viola

Quando Juventus-Fiorentina incoronò i viola

L’11 maggio 1969 i toscani espugnarono il Comunale con uno 0-2 che significava scudetto. Con quell’affermazione De Sisti e compagni raggiunsero il vertice di un percorso mai più replicato

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11 maggio 1969: la Torino della Fiat, quella degli operai immigrati dal sud che tifano Juventus, viene travolta dal passaggio della Fiorentina, che violando il Comunale con un rotondo 0-2, a 90 minuti dalla fine del campionato diventa irraggiungibile per i due inseguitori più vicini, Milan e Cagliari, annodatisi in due sterili 0-0 casalinghi contro Napoli e Sampdoria. A nulla vale il tentativo dei bianconeri, in quella stagione mai veramente in corsa per lo scudetto, di mettere sotto pressione la compagine toscana, salvata più di una volta nel primo tempo dai voli di Franco Superchi, portiere che, quell’anno, è riuscito nell’impresa di non far rimpiangere il grande Ricky Albertosi, ceduto in estate al Cagliari. Ed è proprio a quell’estate che è necessario risalire per ricostruire la genesi di un capolavoro che aveva avuto un solo precedente, quello del 1956 firmato da Fulvio Bernardini, e che, purtroppo per i viola, non si ripeterà più.


Le origini del successo

Estate 1968, quindi. Mentre il mondo brucia delle sue proteste sociali e politiche, in riva all’Arno regna il malumore per i prodromi di un’annata che sembra condannare la Fiorentina a una stagione non migliore di quelle appena passate, vissute a ridosso del vertice del calcio italiano (quattro quarti posti negli ultimi cinque campionati) senza riuscire a fare il salto di qualità che la piazza auspica. È ancora fresco, seppur sempre più lontano nel tempo, il ricordo dello scudetto del 1956, che legittima le aspirazioni di una tifoseria impaziente di veder finalmente sbocciare verso la maturità il talento dei ragazzi che hanno dato vita alla Fiorentina “yé yé”, sinonimo della moda giovanile che imperversa in quegli anni e che ben si adatta a descrivere la qualità più caratterizzante della squadra di quei tempi. La politica dei giovani, necessaria per il presidente pisano Nello Baglini a coniugare bilanci sani e risultati sul campo, impronta anche la campagna acquisti di quell’anno. Sull’altare del conto economico vengono sacrificati tre mostri sacri della rosa, peraltro ceduti a dirette concorrenti per il titolo: Albertosi e Brugnera sono venduti al Cagliari mentre Bertini passa all’Inter. Baglini sa che per far funzionare quel progetto ha bisogno di un uomo forte in panchina e corteggia a più riprese Helenio Herrera. L’allenatore argentino, però, finisce a Roma. Così, a Firenze, col ritorno del direttore sportivo Montanari, da Napoli arriva anche Bruno Pesaola, che in quel gruppo sarà il primo a credere ciecamente.


La convinzione di Pesaola

Nonostante il buon lavoro fatto con i partenopei, arrivati secondi in campionato, lo scetticismo di Firenze nei confronti del Petisso è tangibile. Lui, uomo di mondo dalle risorse innumerevoli come le sigarette che fuma, non si scompone. Anzi, ostenta sicurezza e chiede solo supporto per la squadra: «Io so attendere: esser giudicato dai fatti anziché dall’impressione a prima vista lo preferisco. Quello che mi preme però è che la stampa sia vicina alla squadra, la incoraggi, la sostenga … i giocatori sono giovani e alle critiche della stampa sono sempre sensibili» sono le parole che fa registrare appena arrivato. Del resto gli bastano pochi allenamenti per capire il valore del gruppo che è stato chiamato a dirigere. Le dichiarazioni che rilascia dopo un’amichevole col Grasshoppers sono quasi sconcertanti: «Ho capito una cosa: se con questa squadra noi non vinciamo lo scudetto, mi faccio frate. Frate trappista, sapete, i frati che fanno più penitenze degli altri».
I fatti gli daranno ragione anche se la prima parte di stagione sembra volerlo sbeffeggiare: la Fiorentina non esprime un calcio fluido e alla quinta giornata viene battuta in casa nel derby col Bologna. Sembra l’inizio di un periodo buio: in realtà, è il primo passo importante verso la conquista del tricolore. Quella con i rossoblù, infatti, rimane l’unica sconfitta dell’annata.


La gioia di Firenze

La difesa (Superchi, Rogora, Brizi, Ferrante e Mancin) funziona. Il centrocampo si avvale dell’ampia gamma di qualità che Esposito, De Sisti e Merlo mettono a disposizione dei compagni. All’ala si alternano Rizzo e Chiarugi mentre in attacco Maraschi e Amarildo costituiscono una coppia ben assortita. E quando, l’11 maggio 1969, decine di migliaia di fiorentini invadono Torino con cuori che battono all’unisono tra speranza e paura, tocca a Chiarugi e Maraschi scacciare dai pensieri i timori dell’incertezza. I viola sono di nuovo campioni d’Italia e le vie di Firenze sono inondate da un fiume di persone che innerva le sue bellezze antiche col vigore dell’entusiasmo. Da Piazza Duomo a Santa Maria Novella il trauma dell’alluvione del 1966 è dimenticato, le perplessità dell’estate precedente contraddette, la voglia di mostrarsi all’Italia con lo scudetto sul petto incontenibile. Dal groviglio dei sentimenti accesi e contrastanti che hanno accompagnato la squadra durante l’anno emerge un capolavoro che meriterebbe, un giorno, di essere replicato.  

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