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Il doppio ex a cuore aperto:«Sono arrivato molto giovane e a Roma sono cresciuto tanto. L’Inter mi ha dato la Coppa Uefa»
«La Lazio e l’Inter sono la parte più bella e romantica della mia carriera. Le due squadre dove ho giocato di più e che hanno rappresentato qualcosa di molto importante per la mia crescita professionale e personale. La Lazio mi ha svezzato: ha puntato su un giovane sudamericano poco conosciuto e lo ha fatto diventare grande, mentre l’Inter mi ha fatto crescere e vincere una Coppa Uefa». La storia calcistica di Ruben Sosa, uno degli attaccanti più conosciuti e amati in Uruguay, passa necessariamente da Roma e Milano. Dopo aver giocato in patria nel Danubio e tre stagioni in Spagna, nel Real Saragozza, nell’estate del 1988 arriva la chiamata della Lazio. «Ricordo perfettamente che il mio manager Paco Casal mi chiamò e mi disse che c’era l’interesse di una squadra italiana, che stava però lottando per tornare in A. L’affare si poteva concretizzare solo se ci fosse stata la promozione. Io dissi subito di non sentire altre offerte, volevo venire in Italia. C’erano tutti i più grandi campioni e potevo crescere».
Cosa ricorda del primo anno alla Lazio?
«Che eravamo una squadra che lottava e che giocava bene. Ci salvammo e iniziammo a creare le basi per poter crescere».
La seconda stagione fu quella del Flaminio...
«Io ho giocato in tantissimi stadi, in ambienti caldi e in diverse città. Quello che ho provato l’anno del Flaminio non l’ho mai provato in nessun’altra esperienza. Era una sensazione indescrivibile. I tifosi attaccati al vetro, i cori, il calore, l’entusiasmo: sembrava davvero di stare in Uruguay. Entravi in campo e avevi sempre la sensazione che potevi andare a fare gol in ogni momento».
Al suo fianco, in attacco, c’era Amarildo.
«Io lo prendevo sempre in giro, gli dicevo che non era un brasiliano: aveva 45 di piede, non era il classico sudamericano, ma in area di rigore era fortissimo. Era il suo habitat naturale: di testa era quasi imbattibile. E poi era una persona straordinaria. Siamo ancora amici e ci sentiamo. Si presentò con le Bibbie nello spogliatoio, che poi regalava anche agli stopper che lo marcavano. Prima pregava per loro, poi in campo gli menava (ride, ndr)».
L’estate del 1990 arrivò alla Lazio Karl-Heinz Riedle.
«Forte con i piedi, fortissimo di testa. In Italia ho giocato con tanti attaccanti: Schillaci, Bergkamp, Pancev, ma con lui ho formato la coppia meglio assortita: Riedle e Sosa insieme erano una coppia perfetta. Lui di testa era impressionante. Saltava altissimo. O segnava o mi faceva fare gol con le sponde. L’ho ritrovato anche al Borussia Dortmund e l’intesa era fortissima».
Parliamo di allenatori: alla Lazio ha avuto Materazzi e Dino Zoff.
«Materazzi è stato un allenatore, ma anche un secondo padre. Mi ha accolto a casa, aveva un’umanità incredibile. Cenavo da lui la sera, mi consigliava, mi aiutava. È stato lui a farmi capire il calcio italiano. Ero giovane, e una figura così è stata fondamentale per me. Ho passato bei momenti insieme, anche con il figlio Marco, che poi è stato capitano dell’Inter. Con Zoff fu diverso».
In che senso?
«Grandissimo allenatore e persona eccezionale, meno paterno rispetto a Materazzi, ma un grandissimo conoscitore di calcio. Ricordo che a fine allenamento mi sfidava. Mi diceva: “Ruben, fammi dieci tiri e io te li paro tutti”. Io rispondevo: “Mister, c’hai 50 anni, ma dove vai...”. Alla fine me li parava tutti».
Perché nell’estate del 1992 lasciò la Lazio?
«Io non volevo andare via. L’anno prima andai dal presidente e gli chiesi di rinnovare il contratto, ma lui prese tempo. Mi disse che voleva vedere cosa sarebbe successo alla fine dell’anno. Se fossi ancora decisivo. Ci rimasi male. Cos’altro avrei dovuto dimostrare? Ma in realtà ho capito che la volontà era quella di sentire le offerte per me».
Arrivò l’Inter.
«Sai chi è che aveva l’ultima parola sui calciatori? La moglie del presidente Pellegrini. Eravamo a casa sua, io, Paco Casal, Pellegrini e la moglie. A un certo punto lei, dopo aver sentito i nostri discorsi, si avvicina e mi chiede un autografo per un bambino. Io lo faccio senza problemi. Dopo un po’ di tempo torna e dice al presidente che non avrebbe dovuto acquistarmi. Perché si capiva che ero interessato solo ai soldi e non ad altro».
Come andò a finire poi?
«Che io andai dal presidente e gli dissi: per il primo anno scelga lei la cifra, se io faccio 20 gol, dal secondo anno la decidiamo noi. Lui accettò: quell’anno segnai 20 gol in campionato e 2 in Coppa Italia. Non vinsi la classifica dei cannonieri perché venni battuto da Giuseppe Signori, che prese il mio posto alla Lazio. Ricordo ancora la prima gara all’Olimpico con la maglia dell’Inter da avversario: fece un gol mostruoso».
All’Inter trovò Bagnoli.
«Come sono arrivato, mi mandò in tribuna, un po’ perché c’erano già altri stranieri come Pancev e Shalimov, un po’ perché non pensava fossi adatto ai suoi schemi. Ma la squadra partì male e non riusciva a vincere. Così decise di puntare su di me. Ma mi chiedeva di fare un lavoro che non capivo. Voleva che marcassi il terzino avversario. E io gli dicevo: “‘Mister, io sono punta, devono essere gli altri a marcare me”. Alla fine cedette. Ricordo che alla stampa disse: “Ruben Sosa si salva perché fa gol, perché di tattica non capisce proprio niente”. E aveva ragione».
Quali sono le differenze sostanziali tra le due tifoserie?
«Io sono stato amato da entrambe le tifoserie e le porto nel cuore. Ma sono molto diverse. La tifoseria della Lazio è molto più vicina al calore che sentivo in Uruguay. Ti faccio un esempio. A Milano persi un derby e avevo paura della reazione dei tifosi. I miei compagni mi dissero di stare tranquillo, ma io temevo che uscendo dallo stadio avrei trovato un ambiente inferocito. Invece c’erano degli interisti che mi chiedevano gli autografi e che mi tiravano su di morale. Alla Lazio non sarebbe mai successo. Quando vincevi il derby o facevi gol, eri un re. Andavo per il quartiere e venivo portato in trionfo: avevo cappuccini gratis al bar, il macellaio che mi regalava le bistecche migliori. Ma se perdevamo....».
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