Vittorio Mero, l'addio dello Sceriffo

Vittorio Mero, l'addio dello Sceriffo

Il difensore del Brescia di Mazzone, Baggio e Guardiola se ne andò prima di una semifinale di Coppa Italia

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Il 23 gennaio 2002, il Brescia sta per giocare una sfida importantissima. Le Rondinelle sono attese dal Parma per le semifinali di Coppa Italia, un traguardo eccezionale per una squadra che di solito è invischiata nella lotta salvezza e non bada troppo alle altre competizioni. Ma quello è il Brescia di Roberto Baggio, Carletto Mazzone, Luca Toni e Pep Guardiola, un concentrato di nostalgia più che una semplice squadra. In una serie A complicatissima, ha imparato a dire la sua su ogni campo, grazie al talento della sua stella, all'umanità del mister – la sua corsa sotto la curva atalantina è di quell'anno – e a un gruppo speciale animato da persone speciali. Come Vittorio Mero, una delle anime dello spogliatoio, sempre scherzoso e allegro. È la sua quarta stagione a Brescia e dopo una parentesi di sei mesi alla Ternana è tornato per fare il capitano in vista della coppa Intertoto. È una squadra di ragazzini quella che partecipa al torneo estivo Uefa – si giocava a metà luglio e i titolarissimi erano ancora in vacanza – ma per Mero è l'occasione di esordire in Europa e prende quella responsabilità con la massima professionalità. Come sempre. Mazzone conta su di lui.

Lo Sceriffo "europeo" con la fascia

Negli anni, per il suo impegno, la grinta e la grande abnegazione, si è guadagnato il soprannome di “Sceriffo”. Un nomignolo che porta con lo stesso orgoglio con cui indossa la fascia in quel torneo. È la stella d'oro che si appunta al petto dopo una carriera di sacrifici. Tatabánya, Chmel Blšany: non conta la caratura dell'avversario, quanto la voglia di dare tutto per dei colori che sente suoi sin dal primo giorno. Anche per questo è tanto amato dai compagni e dai tifosi bresciani. Maglia numero 13 sulle spalle, Mero è la chioccia dei tanti giovani che gli giocano accanto e il Brescia passa di slancio i due turni che lo separano dalle finali. La doppia sfida decisiva sarà con il Paris Saint Germain, un'opportunità davvero affascinante per uno che ha giocato a lungo nelle serie minori – tra Casale, Crevalcore e Ravenna – e ora può finalmente dire la sua contro un avversario così importante. Nelle due partite contro i parigini – terminate entrambe in parità, ma il Brescia è sconfitto per la differenza reti – parte dalla panchina, ma ha comunque l'opportunità di entrare in campo per quasi mezz'ora nell'1-1 del Parco dei Principi. Un'esperienza davvero unica.

Il giorno maledetto

La sera in cui dovrebbe giocarsi la semifinale al Tardini, invece, è squalificato. Rimane con Emanuele Filippini, il polacco Kozminski e l'austriaco Schopp ad allenarsi al centro sportivo di Erbusco, tra i vigneti della Franciacorta. È poco più di un allenamento di scarico per i giocatori che non faranno parte della partita, agli ordini del vice di Mazzone, Enrico Nicolini, ma i ritmi sono comuque molto intensi. Dopo un'ora e mezza, i ragazzi giocano un due contro due e la coppia formata da Mero e Filippini riesce a vincere grazie a un gol decisivo del numero tredici. I due amici si abbracciano come fosse una partita vera. Dopo una doccia, vanno tutti a mangiare al Touring di Coccaglio, come al solito, poi Mero salta a bordo della Polo Volkswagen di sua moglie e prende l'A4 in direzione di casa, dove lo aspettano Monica e il figlio Alessandro, di nemmeno due anni. L'autostrada è un caos, come sempre, e alle 13:45 Mero sta sfrecciando nella corsia di sorpasso quando un tir scarta improvviso andando a cozzare sull'autocarro che procedeva nella carreggiata centrale. I due mezzi pesanti restano agganciati e vanno a finire davanti alla sua auto, che ci sbatte contro. Vittorio muore sul colpo. In città comincia a circolare la notizia che un giocatore del Brescia ha avuto un incidente, la preoccupazione monta. Lo stesso Filippini riceve molte chiamate a cui risponde stupito senza capire nulla di ciò che è accaduto. La squadra, nel frattempo, è scesa in campo a Parma e ha cominciato il riscaldamento in vista della partita. C'è anche Nicolini, che dopo l'allenamento ha raggiunto Mazzone per sedersi con lui in panchina. Nessuno sa nulla, ma l'atmosfera è strana. A un certo punto i tifosi del Brescia cominciano a urlare qualcosa in direzione dei giocatori, sembrano arrabbiati. Gli dicono di non giocare, di non scendere in campo. Come si fa, in quelle condizioni? Baggio, il capitano, prova a chiedere in giro che cosa stia succedendo, ma nessuno gli risponde. Alcuni compagni cominciano a piangere, ma nessuno dice nulla. Le bocche sono cucite. Poi, qualcuno parla. Spiega cosa è accaduto: la partita, in quelle condizioni non può giocarsi e, tra lo sconcerto di tutti, la gara viene sospesa. Nessuno vuole crederci. Il padre di Vittorio, che si era sintonizzato per vedere la gara, scopre così della morte di suo figlio e ha un malore. I suoi compagni sono distrutti. I tifosi sugli spalti del Tardini invocano il suo nome. Ma il calcio non si ferma, non può mai farlo nemmeno di fronte a una tragedia. Quattro giorni dopo, il Brescia è atteso a Lecce da un'importante sfida salvezza. Al Via del Mare ci sono striscioni in onore di Mero e le due squadre si radunano in cerchio intorno alla sua maglia numero tredici con la testa bassa. Piangono tutti come fosse appena successo. È il momento del cordoglio, ma si deve giocare e i ragazzi del Brescia, con il cuore ancora gonfio di dolore, vincono 3-1. Il terzo gol lo segna Emanuele Filippini, al suo primo centro in serie A. Era in stanza con Mero, è stato l'ultimo ad abbracciarlo quel giorno maledetto e racconta di aver sentito qualcuno che lo sosteneva, lo sospingeva, quando ha dribblato il portiere avversario e ha messo la palla in rete. Poi si è buttato a terra e ha pianto, sommerso dai compagni. “In carriera avevo sbagliato gol molto più facili, quello me l'ha fatto fare lui” ha raccontato in un'intervista. Il 21 maggio 2024 Vittorio avrebbe compiuto cinquant'anni: il Brescia da tempo ha ritirato la sua maglia, ma il suo ricordo è rimasto vivido nel cuore di tutti quelli che l'hanno conosciuto. Morire così, a ventisette anni, non è giusto, ma lo Sceriffo vivrà per sempre.

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