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Dopo il saluto che Anfield Road ha tributato a Jürgen Klopp, sorge spontaneo analizzare l’impatto emotivo che determinano i distacchi tra allenatori, giocatori e i loro club
“Sorry seems to be the hardest word” è uno dei maggiori successi dell’ampia produzione musicale di Sir Elton John. E per quanto la melodia di quel brano sia struggente, forse l’ex proprietario, nonché presidente, del Watford nello stendere quel testo non aveva considerato che c’è una parola ancor più difficile da pronunciare: addio. Tanto che oggi, circondati da un mondo virtuale che tende per natura a mistificare la realtà pur volendola imitare per sembrare vero, è un termine che si evita con accuratezza di utilizzare. Nemmeno davanti alla morte si riesce a pronunciare una parola così definitiva. Dire addio fa paura: significa chiudere per sempre con qualcosa che ha fatto parte di noi. Anche nei casi in cui un distacco da qualcosa o qualcuno lo si è inseguito a lungo, il momento di viverlo porta con sé la vertigine dell’ineluttabile, la consapevolezza di aver fatto una scelta che comporta una sottrazione definitiva. ?
Se ne è avuta una rappresentazione lo scorso 19 maggio, quando i tifosi del Liverpool che grondavano dalle tribune hanno salutato il condottiero dei Reds degli ultimi nove anni: Jürgen Klopp. Un saluto da brividi e lacrime, sapientemente shakerati in un contenitore magico come Anfield, solitamente palcoscenico più per sceneggiature d’azione che romantiche. Quel pubblico non ha potuto non cambiare l’atmosfera di un luogo che per gli ospiti assume spesso i connotati dell’incubo sportivo, facendo sfoggio di un amore composto e solenne come solo in certi funerali accade di vedere. Quell’ultimo “You’ll never walk alone”, cantato all’unisono e senza sbavature al cospetto del manager che ha saputo interpretare e indirizzare l’anima del Liverpool dell’ultimo decennio, ha avuto la forza lacerante che solo gli addii sanno infliggere. Perché ogni addio è una cesura col passato, un confine che si passa con la consapevolezza di non poter tornare indietro, che sia l’ineluttabilità dei fatti a determinarla piuttosto che la determinazione di una scelta. Come è stato il caso di Klopp, consumato da nove anni di calcio vissuto col massimo coinvolgimento delle energie fisiche e mentali, assorbito nello spirito del Liverpool e della città come pochi altri protagonisti della storia dei Reds. Salutarlo definitivamente è stato davvero difficile per ciò che questo tedesco di Stoccarda ha significato per il club: successi (dai trofei internazionali come la Champions League e la Coppa del mondo per club alla vittoria della Premier, che mancava da trent’anni), bel gioco, agonismo eccelso, spettacolo. E per la gente, rappresentata nel migliore dei modi da un allenatore capace di vivere le tensioni del calcio professionistico secondo principi di fair play che somigliano a gemme rare, in un ambiente spesso contaminato dal perseguimento esclusivo e a qualunque costo dei propri interessi. Separarsi da Klopp significa lasciare spazio all’inquietudine dell’incertezza, con il dubbio di non sapere che direzione prenderà il futuro.
Una situazione che si verifica spesso quando personaggi che hanno contribuito in maniera determinante a scrivere un pezzo di storia di una squadra se ne allontanano. Qualcosa di analogo avvenne nel 1984 alla Roma, quando, prima ancora di giocare la finale di Coppa dei Campioni proprio contro il Liverpool, Nils Liedholm aveva deciso di lasciare i giallorossi. Ragionamento congruo, dettato dalla consapevolezza di avere esaurito un percorso che, nel momento della decisione, l’iconico svedese immaginava potersi concludere con la vittoria della coppa europea più prestigiosa. Liedholm, insieme al presidente Viola e a Falcão, aveva guidato i giallorossi nel quinquennio più importante della loro storia, portando la squadra a competere stabilmente ai massimi livelli del campionato, relegando per sempre l’immagine della Rometta nelle pagine sbiadite dei decenni precedenti. Il suo addio fu vissuto con preoccupazione da una tifoseria che vedeva in lui il condottiero capace di trasmettere forza a un ambiente poco esperto nell’affrontare le insidie del calcio d’élite. Diverso, rimanendo nella categoria degli allenatori, il saluto di Sir Alex Ferguson al Manchester United dopo ventisette anni di pluridecorata gestione. I sopraggiunti limiti di età, oltre al fatto che il tecnico scozzese sarebbe comunque rimasto vicino allo United, fecero vivere il distacco in maniera meno traumatica.?
La questione degli addii, ovviamente, riguarda anche i calciatori, pur se oggi, con le porte girevoli del calciomercato globale sempre in vorticoso movimento, è più difficile innamorarsi di un singolo giocatore e renderlo emblema della propria squadra. Bruno Conti, il giorno dopo l’amara sconfitta nella finale di Coppa Uefa del 1991, seppe riempire lo stadio Olimpico per dare il suo addio al calcio giocato dopo sedici stagioni con la maglia della Roma. Un’ultima notte d’amore dai toni struggenti come anche quella che visse Marco van Basten a San Siro nel 1995, costretto al ritiro dagli interminabili guai che avevano tormentato la sua caviglia. Il Meazza, nove anni più tardi, fu il palcoscenico per l’ultimo saluto di un altro fuoriclasse del calcio di tutti i tempi: Roberto Baggio, osannato tra le lacrime dal pubblico nonostante indossasse la divisa del Brescia, suo ultimo club di appartenenza. Salutare il Divin Codino significava per molti italiani la consapevolezza di aver chiuso con il profumo di giovinezza spensierata che il talento di Caldogno aveva rappresentato: dalle notti magiche di Italia 90 ai sogni irrealizzati degli altri mondiali di quell’ultimo decennio del ventesimo secolo. ?Anche Paolo Maldini dette l’addio ai suoi tifosi nella Scala del calcio. Il suo, però, fu un commiato turbato dalle contestazioni insane di una ridotta porzione del pubblico rossonero, al quale erano rimasti indigesti alcuni atteggiamenti che il capitano rossonero aveva avuto nei loro confronti in passato. Niente di paragonabile a quanto accaduto al povero Giuseppe Giannini, che ebbe la sfortuna di organizzare la partita di addio al calcio pochi giorni dopo che la Lazio aveva vinto il suo secondo scudetto. La rabbia cieca e greve che animava quel 17 maggio 2000 i più esagitati che erano accorsi all’Olimpico per l’occasione gli rovinò la festa, rendendo ancor più amaro un giorno di cui si cerca di esorcizzare le emozioni avendo vicino gli ex compagni e i tifosi più fedeli. Come fece, nell’addio reso ancor più celebre dal film e dalla serie televisiva che l’hanno immortalato, Francesco Totti nella sua ultima partita, il 28 maggio 2017. Nel momento più difficile da gestire nella carriera di un calciatore, il capitano della Roma volle essere accompagnato dalla famiglia e dalla comunità allargata dei tifosi ai quali aveva regalato gioie infinite. Il suo giro di campo finale sciolse in lacrime venticinque stagioni di calcio professionistico, un quarto di secolo nella vita di milioni di persone che, declinando Totti al passato, toccarono con mano il mistero dell’inarrestabile scorrere del tempo.
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