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L'infanzia, la crescita, le svolte, gli infortuni: per il tecnico del Real Madrid una vita da calciatore mai banale. Da Roma a Milano, studiando da grande
Da calciatore: tre Scudetti, quattro Coppe Italia, una Supercoppa Italiana, due Coppe dei Campioni, due Supercoppa UEFA, due Coppe Intercontinentali. Da allenatore: uno scudetto in Italia, una Coppa Italia, una Supercoppa Italiana; una Premier League, una Community Shield, una Coppa d’Inghilterra; un Campionato francese; due Coppe del Re di Spagna, due Liga, due Supercoppe di Spagna, una Bundesliga, due Supercoppe di Germania; cinque Champions League, una Coppa Intertoto, quattro Supercoppe UEFA, tre Mondiali per club.
Il pezzo si sarebbe scritto con la sola bacheca, ma l'aggiornamento delle statistiche non corrisponderebbe alla narrazione della vera storia. Come tutte le vicende destinate a diventare grandiose, anche questa germoglia in un tempo piccolo, come nella canzone scritta da Franco Califano, attraverso il quale il nostro protagonista è divenuto universale, oltre che grande.
A Reggiolo, in Via Vallicella, viene alla luce Carlo Ancelotti; anzi, Carlo Erminio Ancelotti, come suo nonno. Papà Giuseppe lavora la terra, è mezzadro. Carlo guarda col naso all'insù il padrone del terreno, quando viene a dividere il raccolto e le bestie: traccia una riga sul grano, questo è mio e questo e tuo, poi sceglie per sé le pollastre più grasse e pasciute. La vita è già allora, dunque, come un grande cerchio di centrocampo: occorrono sopportazione, buon senso, fatica e grande attenzione per tenerle testa, per condurla degnamente.
C'è un muretto, in quella strada, che per Carlo bambino è un po' come la siepe di Leopardi: un confine che delimita una realtà idilliaca, che protegge dalle insidie del mondo che sta dall'altra parte. Ma, a differenza della siepe de "L'infinito", lo si può prendere a pallonate, tutto il santo giorno: come se il destino volesse dare una piccola anticipazione su ciò capiterà di lì a qualche anno, con un signore svedese di nome Nils che pretenderà il "battimuro" anche da professionisti con anni di Serie A alle spalle.
Il ragazzino alterna le ore col pallone alla passione per la bicicletta; anzi, fino a un certo punto sembra destinato a quest'ultima: a tredici anni vince addirittura i Giochi della Gioventù, dopo essersi rotto il braccio l'anno precedente. Il calcio però gli piace di più, semplicemente.
Comincia nelle giovanili del Reggiolo, dove evidenzia subito forza, resistenza e un innato senso tattico grazie al quale sopperisce alla non elevata velocità di base. Nella stagione 1976-77 approda al Parma, in Serie C: i gialloblù hanno ambizioni e mezzi per puntare ai piani nobili del calcio italiano, Ancelotti non impiega molto tempo a diventare il pezzo pregiato della compagine. Nel frattempo, in panchina arriva Cesare Maldini che gli scopre piedi quasi da attaccante, tanto che lo schiera sulla trequarti, a ridosso delle punte: ha la qualità per rifinire e il tiro dalla distanza, secco e potente.
La stagione 1978-79 è il primo, importante spartiacque della sua carriera: grazie al secondo posto nel Girone A della C1, il Parma approda allo spareggio per la promozione in B, contro la Triestina. Sarà un pomeriggio di gloria: dopo l'uno a uno, proprio una doppietta di Carlo Ancelotti regala la promozione. Si gioca allo stadio "Menti" di Vicenza e in tribuna gli occhi del presidente della Roma Dino Viola e dell'allenatore Nils Liedholm sono tutti per lui. È l'uomo giusto, sebbene ancora semisconosciuto, per cominciare a edificare una grande Roma, che abbia finalmente fame e ambizione. C'è già l'Inter sul ragazzo, la società nerazzurra gli ha addirittura già fatto indossare la maglia in un'amichevole contro l'Herta Berlino. Viola non esita: 750 milioni di Lire finiscono nelle casse del Parma, Carlo Ancelotti è un giocatore della Roma. È una cifra esorbitante per un ragazzo proveniente dalla Serie C; alla maggior parte degli osservatori e degli addetti ai lavori sembra una follia: si rivelerà una delle decisioni più azzeccate della storia giallorossa.
Roma sarà la piazza della definitiva maturazione: come calciatore, perché a dispetto della giovane età diventa subito uno degli inamovibili del blocco che Nils Liedholm porterà a diventare un meccanismo perfetto, dal possesso palla annichilente e dal tasso tecnico strabiliante; come uomo, ancora di più, perché il calcio dei grandi comincia a svezzarlo da subito e perché l'esperienza suprema del dolore, fisico e psicologico, lo tempra: il 25 ottobre del 1981, in un contrasto col baffuto e coriaceo Casagrande della Fiorentina, il ginocchio destro si gira in maniera innaturale, i legamenti gli vanno appresso. Dolore, appunto, operazione, tempi di recupero - che non sono quelli di oggi - e tanta incertezza.
Vacillano le convinzioni degli altri, mai le sue. Torna, forte come prima. Ma in un allenamento del gennaio 1982, i crociati cedono di nuovo. Perde i campionati del mondo in Spagna, Bearzot non può aspettarne il recupero; perde la stagione, con tutto lo scetticismo, comprensibile, che la ricaduta si porta appresso. Non perde, mai, la fiducia in se stesso e nella sua capacità di recupero. Esige un credito, a quel punto: lo riscuote in un'apoteosi di gioia e colori, perché è uno dei protagonisti assoluti dello scudetto che nel maggio '83 torna nella Capitale dopo quarantuno anni. La sorte e le articolazioni non hanno smesso, però, di metterlo alla prova: 4 dicembre 1983, Juventus - Roma, quella della rovesciata di Pruzzo, del rocambolesco due a due acciuffato in extremis, di Tacconi che si rompe il dito. Ma anche, maledettamente, quella del ginocchio di Carlo Ancelotti, stavolta il sinistro, che cede dopo un contrasto con Antonio Cabrini. Perde di nuovo una stagione, Coppa dei Campioni - fino alla finale maledetta contro il Liverpool - compresa.
Sono in molti a pensare che stavolta sia finita per davvero. Invece Carlo sta già preparando l'ennesima rivincita, a colpi di fatica e potenziamento muscolare, che a metà degli anni Ottanta è ancora il modo più efficace per proteggere le articolazioni. Vive l'ennesimo ritorno, in una Roma che sta mutando pelle: Falcao – anche in quel caso un ginocchio maledetto – ha imboccato il viale del tramonto, in panchina non c'è più Liedholm ma un altro svedese, dalle convinzioni diverse, Eriksson. Ancelotti diviene leader di una Roma metà giovane e metà veterana, indossa la fascia di capitano, sfiora lo scudetto del 1986, fa da chioccia a un capitano del futuro: Giuseppe Giannini. La stagione 1986-87 è l'ultima in giallorosso, se ne va dopo uno scudetto e quattro Coppe Italia, per vestire la maglia di quel Milan contro cui, curiosamente, aveva vissuto il suo esordio in Serie A da romanista, il 16 settembre del 1979, all'Olimpico, zero a zero e una ghiotta occasione scaricata addosso ad Albertosi.
Il muro di Via Vallicella, a Reggiolo, non esiste più; tutto il mondo che stava al di là Carletto l'ha conosciuto e conquistato, da giocatore prima e da allenatore poi, fino alla "Decima" della scorsa primavera, la Champions League che lo lega indissolubilmente alla leggenda del Real Madrid. In quella provincia ricca e operosa, semplice e saporita come la cucina che non ha mai disdegnato, Ancelotti ha costruito se stesso, quell'identità mai tradita di uomo corretto e perbene, che è cosa diversa dall'essere un "buono", definizione che ancora oggi lo fa terribilmente incazzare. In ogni altro posto dove è stato ha seminato sacrificio e successi, fino a oggi. Il cuore però lo ha lasciato a Roma, come ribadisce ogni volta che gli capita di parlare della città e della squadra che lo ha fatto uomo.
Chissà che prima o poi non torni a riprenderselo.
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