Italia e Spagna: tra catenaccio e tiki-taka

Italia e Spagna: tra catenaccio e tiki-taka

Storia dell'evoluzione tattica del calcio nelle due nazioni di nuovo l'una contro l'altra anche a Euro 2024

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Se analizziamo dal punto di vista diacronico la storia dei movimenti calcistici di Italia e Spagna possiamo notare che entrambi sono due nazioni calcistiche che si basano su culture nettamente differenti, però è curioso constatare che nonostante l’intrinseca diversità tra questi due mondi diversi, in qualche occasione Spagna ed Italia si sono avvicinate calcisticamente parlando, senza tuttavia mai abbracciarsi completamente l’una con l’altra. Questa netta differenza tra gli universi calcistici di Italia e Spagna ha radici innanzitutto culturali: l’Italia è stato un paese che fin dal Cinquecento con il Rinascimento, a causa dell’oggettiva complessità politica dello Stivale, ha abbracciato un pensiero realistico, laico e pragmatico (si pensi al pensiero di Nicolò Machiavelli). La Spagna invece, una nazione nata con il mito della Reconquista e che poi dal Cinquecento è stata pesantemente condizionata dalla Controriforma cattolica, non ha mai visto sviluppare un pensiero di questo tipo. La Spagna (ma anche il vicino Portogallo) ha sviluppato anche in campo sportivo così un approccio che potremmo definire di “estetismo decadente” distante anni luce dal pragmatismo machiavellico e talvolta luciferino della cultura calcistica italiana: gli spagnoli sono risulatadisti nell’animo come gli italiani ma ovattano spesso la loro sete di risultati con uno strato abnorme di stile ed estetica. Tuttavia, accanto a queste considerazioni abbastanza generiche, c’è un’altra questione da analizzare di tipo prettamente politica. Sia Italia che Spagna sono due paesi per certi versi “frammentati” dove un forte potere centrale si è imposto con la forza sulle periferie come siti talvolta contraddittori. La differenza è che l’Italia ha sviluppato una vocazione strettamente campanilistica che però non ha mai cancellato un desiderio quasi inconscio di “omologazione” culturale da parte degli italiani. La Spagna invece è una nazione dove si è sviluppato un fortissimo spirito regionalista/autonomista a “comparti stagni” che ha causato diverse frizioni tra il potere centrale madrileno e le regioni periferiche abitate da catalani, baschi, asturiani, galiziani, tutti popoli che hanno sviluppato e mantenuto un’identità quasi separata da quella castigliana. Questo fatto può essere trasposto anche in ambito calcistico: l’Italia ha sempre avuto una sola cultura calcistica, di impronta pragmatico/funzionalista che è stata imposta dalle squadre del Nord al resto del paese; sostanzialmente per decenni da Bolzano a Ragusa tutte le squadre italiane hanno seguito (e seguono tuttora) suppergiù lo stesso spartito di gioco. Questo discorso è sempre stato inapplicabile per la Spagna dove i frequenti attriti tra potere centrale e regioni periferiche ha fatto sì che, nelle varie regioni della Spagna, si sia sviluppato nei decenni un calcio con connotazioni fortemente identitarie e frammentarie. Il calcio individualista e conservatore del Real Madrid, squadra che esprime al meglio il concetto iberico di “estetismo decadente”, è sempre stato diverso da quello più “progressista” del Barcellona (influenzato in maniera decisiva dal totaalvoetball olandese) ma anche dal gioco fisico e rude, molto simile al football inglese, che storicamente è tipico delle squadre dei Paesi Baschi.

 

Fino agli anni Trenta

 

Sia in Italia che in Spagna il calcio si è sviluppato nelle zone industrialmente più avanzate e dove il Regno Unito aveva i suoi interessi economici più importanti ovvero il triangolo Genova-Torino-Milano nello Stivale e i Paesi Baschi nella penisola iberica. Proprio a causa di questo motivo fino agli Anni Trenta il calcio in Spagna è un fenomeno prettamente basco: nel 1928, anno di nascita della Primera División ben quattro squadre su otto provengono dall’Euskadia, ai mondiali del 1934 nella partita d’esordio contro il Brasile la Spagna si schiera con dieci giocatori baschi su undici (unica eccezione il leggendario portiere Zamora), lo stesso soprannome “Furia Roja”, adottato per la prima volta alle Olimpiadi di Anversa del 1920, rimanda allo spirito indomito e al gioco molto rude praticato dalla selezione basco/spagnola nelle prime tre decadi del Novecento. Anche dal punto di vista tattico le principali innovazioni vengono dai Paesi Baschi, di fatto una sorta enclave britannica in terra spagnola: è stato Fred Pentland, tecnico del grande Athletic Bilbao dei primi Anni Trenta, ad arretrare per primo le due mezzali del 2-3-5 a centrocampo, un cliché che poi sarà (e tuttora resta) un autentico marchio di fabbrica del calcio spagnolo e che è stata la base dei successi dell’Italia di Pozzo ai mondiali del 1934 e del 1938.

 

Gli anni Quaranta e Cinquanta

 

L’avvento del franchismo accantona l’importanza dei Paesi Baschi nell’economia del calcio spagnolo ed iniziano ad emergere le squadre della capitale: prima l’Atlético Aviación e poi il Real Madrid che con Santiago Bernabeu in cabina di regia e Alfredo Di Stefano in campo costruisce un ciclo leggendario nella seconda metà degli Anni Cinquanta. Il dominio delle due formazioni madrilene viene inframezzato da importanti affermazioni del Barcellona che con l’espatriato ungherese Kubala già mostra i semi di un gioco evoluto, di impronta più mitteleuropea che iberica. In questi due decenni in Spagna domina il gioco aperto ed i duelli uomo contro uomo tipici del WM, sistema di gioco introdotto in Spagna dalle squadre basche (notoriamente anglofile) e poi estese a tutte le altre compagini iberiche nel biennio 1947-48. In quella stessa stagione in Italia sta per accadere lo stesso fenomeno grazie ai successi del Grande Torino, una squadra assolutamente anomala nel panorama calcistico italiano che sa approfittare della crisi del Metodo imponendo una sorta di “calcio totale” ante litteram su un’impalcatura sistemista. Se in Italia l’adozione del WM provoca i primi esperimenti di Catenaccio in provincia (Vigili del Fuoco di La Spezia, Salernitana di Viani, Triestina di Rocco), in Spagna assistiamo solamente ad un effimero tentativo di Catenaccio (ribattezzato “Cerrojo” in Spagna) tentato da Benito Díaz che nel 1951 schiera la sua Real Sociedad con il libero staccato in una finale di Copa del Generalissimo (persa) contro il Barcellona. Questa trovata tattica, subito esecrata dalla stampa spagnola, non troverà seguito per decenni in Spagna mentre in Italia, dalla fine degli Anni Cinquanta, il difensivismo diverrà egemone.

 

Le storie si dividono

 

Nei primi Anni Sessanta i destini calcistici di Italia e Spagna si separano per la prima volta in modo abbastanza netto: se l’Italia grazie al Catenaccio, al suo gioco spiccatamente pragmatico e funzionalista, costruisce grandi successi con i club a livello europeo (Inter e Milan), la Spagna dopo il vittorioso europeo del 1964 pian pianino incomincia a passare in secondo piano nella geografia del calcio europeo. Se l’Italia riesce a costruire un sistema ed un credo calcistico che sa esaltare alla perfezione le tipiche virtù italiane (estro estemporaneo, astuzia, tenacia), la Spagna fa una fatica immane a liberarsi dal WM, un sistema di gioco adottato integralmente da tutte le squadre spagnole ancora a metà dei Sessanta. Infatti il quadrilatero di centrocampo sistemista si prestava molto al possesso palla ed il fraseggio corto e orizzontale, un tratto distintivo che univa sia le squadre madrilene che quelle catalane. La prima squadra a dare uno “scossone” al futebol spagnolo è l’Atlético Madrid di Marcel Domingo, squadra “outsider” che sul finire degli Anni Sessanta adotta il 4-4-2 a rombo con un gioco che combinava un blando possesso palla orizzontale a improvvise imbeccate in “contragolpe”. Nei primi Anni Settanta l’arrivo di Rinus Michels e Johan Cruijff al Barcellona fanno conoscere alla Spagna il calcio totale che però lambisce in modo solo superficiale un calcio molto conservatore e localistico. Anzi, si può dire che l’effetto del binomio Cruijff sul calcio spagnolo abbia avuto esiti spiazzanti e quasi incomprensibili alle latitudini italiane: da un lato, infatti, le squadre spagnole esasperano il concetto di duello uomo contro uomo, dall’altro invece iniziano pian pianino ad adottare la figura del libero staccato. Il laatste man è fondamentale nella concezione calcistica di Michels (e poi Cruijff) che non prevede l’implementazione di moduli di gioco lineari ma piuttosto strutturati su tanti triangoli sovrapposti in cui il vertice alto è il libero e quello basso il centravanti. Infatti, se in Italia il libero staccato inizia a comparire già alla fine degli Anni Cinquanta, in Spagna è solo negli Anni Settanta che iniziano a vedersi delle difesa a quattro con un uomo che gioca staccato, prima in forma camuffata poi via via in modo sempre più evidente. Se l’Italia degli Anni Settanta conosce numerosi quanto effimeri esperimenti di “calcio totale” (Lazio di Maestrelli, Napoli di Vinicio, Torino di Radice, in parte la prima Juventus di Trapattoni) che portano ad una certa “europeizzazione” del calcio italiano, in Spagna assistiamo invece ad un fenomeno quasi opposto. Ciò è dovuto al fatto che la Spagna (o meglio il Barcellona) ha emendato il filone “michelsiano” del calcio totale, che pone molto l’accento sulla tecnica ed i duelli individuale e poco sulla tattica collettivista, mentre l’Italia si è ispirata alla corrente “happeliana”, più propensa invece ad esaltare l’atletismo, l’organizzazione difensiva e la disciplina di squadra.

 

Gli anni Ottanta e Novanta

 

Nei primi Anni Ottanta il calcio spagnolo ormai si è talmente involuto in chiave difensiva da assomigliare sempre di più a quello italiano, non è un caso che il quadriennio 1980-84 sia dominato dalle squadre basche (Real Sociedad ed Athletic Bilbao) che riescono a creare una breve egemonia grazie ad al loro gioco molto fisico e rude. Però è proprio il Bilbao a dare la prima piccola “scossa” ad un ambiente estremamente retrivo dal punto di vista tattico. Javier Clemente, giovanissimo tecnico dei biancorossi bilbaini, propone con successo per la prima volta la “defensa en línea”, una linea a quattro difensiva pura mutuata (tanto per cambiare) dal calcio inglese. Fino a quel momento infatti in Spagna si era sempre giocato prevalentemente con il libero, anche se non era chiaro se l’orientamento fosse la zona o l’uomo. L’arrivo (dopo il 1985) di numerosi tecnici britannici in Spagna (per fare alcuni nomi: Terry Venables al Barcellona, John Toshack alla Real Sociedad) rafforzeranno il concetto di difesa “adelantada y en línea”, anche se l’impatto decisivo lo darà il quadruplo confronto (nelle stagioni 1988-89 e 1989-90) tra il Real Madrid di Leo Beenhakker, fermo ancora alle marcature individuali, ed il Milan sacchiano che riesce a mostrare per la prima volta alla Spagna la superiorità dell’organizzazione difensiva zonale su quella individuale. In Italia invece il ciclo sacchiano “seppellisce” il vecchio impianto del Catenaccio (marcature a uomo e schieramento asimmetrico) ma non la sua struttura funzionalista votata al gioco verticale più che al fraseggio. Nello stesso periodo in Catalogna, con l’arrivo sulla panchina blaugrana di Johann Cruijff, vengono invece rigettati i semi del totaalvoetball olandese che però germoglieranno appena nel decennio successivo con le idee del suo mentore Josep “Pep” Guardiola. Questo perché il “cruyffismo” conosce la sua prima grande battuta d’arresto nel 1994, quando i blaugrana vengono sconfitti in finale di Champions League dal Milan di Capello, una squadra che applica una versione conservativa dei concetti sacchiani. Una battuta d’arresto che però non pregiudicherà l’evoluzione del calcio spagnolo (ed iberico in generale)

 

Dagli anni 2000 a oggi

 

A posteriori si può considerare quella calda serata di Atene del 1994 come la classica vittoria di Pirro per il calcio italiano che, a partire dai primi Anni Duemila, ha iniziato una repentina parabola discendente in concomitanza (non è un caso) con il boom del calcio spagnolo (ma anche portoghese) che poi è sfociato, dopo un lungo crescendo rossiniano, nella rivoluzione guardioliana e nel fenomeno del tiki-taka. In realtà questo termine onomatopeico è stato coniato per definire il gioco della Spagna del 2008 di Luis Aragonés, tecnico del “vecchio corso spagnolo” che ha faceva giocare la sua Spagna più con i crismi del classico gioco del suo marca Atlético Madrid (ovvero blando possesso palla orizzontale finalizzato alla verticalizzazione) che con il gioco posizionale di marca Guardiola. Il calcio spagnolo, con un’abile mossa quasi da judoka, è riuscito a convertire il rigido impianto tattico funzionalistico implementato dal sacchismo in un sistema più a maglie aperte che ha un solo dogma: dietro la difesa a quattro, in attacco l’unica punta (od il famigerato falso nueve), in mezzo un centrocampo molto folto e mobile. Da un calcio simmetrico e lineare, puramente votato al contenimento e alla transizione, si passa così ad un calcio dove sono cardinali il concetto di posizione e fluidità dei ruoli, da un pressing monotono e collettivista si passa quindi ad una pressione più orientata sull’uomo e sul recupero della palla. La rivoluzione ha finito per contagiare per la prima volta il calcio italiano, che a partire dalla metà degli Anni Dieci del Duemila, inizia ad adottare sempre con maggiore insistenza molti crismi del juego de posición spagnolo anche se il rigido tatticismo, che è da sempre un tratto distintivo del calcio italiano, non ha permesso la nascita di un coerente filone “italianista” del guardiolismo che ha avuto forse la sua massima interpretazione nel Napoli di Sarri del triennio 2015-2018. La maggioranza delle squadre italiane si sono limitate a coprire sempre di più le zone centrali del campo (per questo motivo in Italia vengono molto usati sia il 4-3-3 che il 3-5-2) e ad avviare un’ossessiva, quanto spesso poco produttiva, costruzione dal basso. Il vero modello vincente in Italia oggi sembra un altro, ovvero il gioco “uomo contro uomo” dell’Atalanta di Gasperini, una versione italica del gegenpressing di scuola tedesca che abbina pressione a tutto campo individuale a veloci transizioni negli spazi liberi. Il calcio spagnolo invece sta pian pianino cercando di uscire dall’“onda lunga” del tiki-taka, anche perché gli ultimi successi della nazionale sono vecchi di dodici anni: da un calcio posizionale guardioliano, le squadre spagnole si stanno avvicinando al modello relazionale fatto vedere nell’ultima stagione dal Bayer Leverkusen di Xabi Alonso (un altro basco tanto per cambiare!) che non ha più lo spazio come riferimento da occupare bensì la palla e la relazione che essa crea con i giocatori. La stessa Italia di Spalletti si sta avvicinando molto a questo modello: un calcio dove contano sempre di più i giocatori e meno i sistemi di gioco codificati.

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