Europei di calcio: il quasi “triplete” della Germania Ovest

Europei di calcio: il quasi “triplete” della Germania Ovest

I tedeschi furono protagonisti assoluti nelle edizioni della competizioni continentali di quel periodo: campioni nel 1972 e nel 1980, sconfitti solo ai rigori nella finale di EURO 1976

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Gli anni Settanta sono stati tra i decenni più complessi del Ventesimo secolo. Non poteva essere diversamente, avendo costituito il trait d’union tra le spinte rivoluzionarie dei Sessanta e i toni, decisamente più “leggeri”, degli Ottanta. Un periodo di passaggio nel quale i temi della contestazione allo status quo si erano, per certi versi, istituzionalizzati, assumendo la caratteristica di un’imprescindibilità quasi aprioristica, con i suoi codici e i suoi schemi facilmente riconoscibili.


La rivoluzione del calcio totale

 

Nel mondo del calcio, conservatore per definizione, il flusso di istanze provenienti dalla società civile venne rallentato, filtrato e semplificato in due principali direzioni: l’immagine dei giocatori e i cambiamenti tattici. Sulla prima non ci sono analisi approfondite da sviluppare, essendo possibile semplicemente annotare la moda dei capelli lunghi e, in misura minore, delle barbe incolte. Più interessante soffermarsi sull’espansione di nuovi modi di interpretare il gioco che ebbero come alfiere il calcio olandese, che con la propria nazionale rifletteva i principi che l’Ajax rappresentava a livello di club. Il cosiddetto calcio totale fu una ventata di novità che si basava sulla capacità dei giocatori di interpretare più ruoli, di cambiare velocemente le posizioni in campo durante la partita, di prediligere un gioco offensivo che comportava la necessità di avere una preparazione atletica incrementata rispetto agli standard precedentemente in voga. Un approccio, quello olandese, di portata davvero rivoluzionaria, testimoniato da due dati oggettivi: innanzitutto il fatto che quella nazionale, a decenni di distanza, venga ancora ricordata nonostante non abbia vinto alcun trofeo (la squadra che vinse gli Europei nel 1988 - quella di Rijkaard, Gullit e Van Basten - ha un “valore di brand” molto inferiore); secondariamente (solo per ordine espositivo) l’eredità che quel modo di giocare ha lasciato alle generazioni successive, essendo evidente che molti dei concetti che informano il calcio dei nostri giorni derivino dalle novità che portò il calcio totale.


La classicità della Germania Ovest

 

In qualunque settore della vita, però, ci sono spazi nei quali le rivoluzioni non attecchiscono. In politica come in campo musicale, in letteratura come nella moda, gli stilemi classici sopravvivono ai momenti di innovazione senza contrastarli, mantenendo la capacità di tramandare valori che hanno la pretesa di non poter essere spazzati via dalle innovazioni. Piuttosto si fanno momentaneamente da parte, cedendo per il tempo necessario lo spazio della ribalta alla forza di rottura tipica delle nuove idee. Per poi riguadagnare importanza e ammirazione nel momento in cui le rivoluzioni vengono corrotte dal loro spirito estremo e hanno bisogno di fare un passo indietro. La Germania Ovest, negli anni Settanta, rappresentò in ambito calcistico il valore intramontabile della classicità, opposto alla strabordante corrente di pensiero che vedeva nella portata innovativa del calcio totale l’unica tendenza possibile che il calcio del futuro avrebbe potuto seguire. Un portiere affidabile, capace di parare tra i pali senza la necessità di dover fare l’ultimo calciatore di movimento dietro alla difesa allineata a zona; un libero dai fondamentali eccelsi, capace di impostare dietro alle rigorose marcature a uomo dei compagni di reparto; centrocampisti e attaccanti in grado di svolgere i loro ruoli senza essere necessariamente intercambiabili, furono i baluardi della tradizione calcista alla quale si rifecero i tedeschi per lasciare un’impronta di successi indelebile nel decennio in cui gli afflati destabilizzanti della società arrivarono a soffiare sui rettangoli di gioco.


La vittoria di Euro 1972

 

A partire dall’Europeo del 1972, che la Germania Ovest vinse schiacciando gli avversari. A cominciare dall’Inghilterra, sulla quale si prese una nuova rivincita della finale mondiale del 1966 (dopo quella già consumata nel 1970 in Messico) eliminandola nei quarti di finale, infliggendole una sanguinosa sconfitta casalinga (1-3) che rese sufficiente al ritorno uno 0-0 per passare alla fase finale della manifestazione. Contesto in cui Beckenbauer e compagni passeggiarono sulle flebili opposizioni di Belgio e Unione Sovietica, vincendo il torneo senza discussioni. Un antipasto gustoso del titolo mondiale conquistato due anni può tardi abbattendo la resistenza di quell’Olanda di Cruijff che andava per la maggiore.
La Germania Ovest è una squadra matura, forte negli uomini e nel collettivo, capace di giocare un calcio al tempo stesso fisico e molto apprezzabile dal punto di vista tecnico, che attinge a piene mani dalle formazioni delle due società che primeggiano in quegli anni in campionato: il Bayern Monaco e il Borussia Mönchengladbach, rappresentate rispettivamente da Franz Beckenbauer e Gunter Netzer. Oltre a loro due, l’organico abbonda delle qualità di Sepp Maier, Paul Breitner, Uli Hoeness, Jupp Heynkes. E, davanti a tutti, di quel piccolo fenomeno nato per fare gol che risponde al nome di Gerd Müller.


Il quasi “triplete”

In Jugoslavia, nel 1976, il bis del titolo europeo sembrava a portata di mano. L’imprevedibilità del calcio, però, portò ai titoli di coda una generazione d’oro, a cui il fantasioso rigore di Panenka cantò il de profundis. Il ricambio generazionale diventò un’esigenza ineluttabile che, dopo l’insipido passaggio del mondiale in Argentina, dette i suoi frutti nell’Europeo del 1980. In Italia i tedeschi, definitivamente congedata la generazione di Beckenbauer, si presentarono con una squadra molto giovane: Rummenigge e Briegel avevano ventiquattro anni, Klaus Allofs ventitré, Hansi Müller ventidue, Bernd Schuster non ancora ventuno. Una nouvelle vague guidata da Jupp Derwall che, subentrato a Helmut Schön dopo esserne stato l’assistente, da quando si era insediato sulla panchina nell’autunno del 1978 non aveva mai perso. Quindici risultati utili consecutivi furono l’invidiabile biglietto da visita con cui la Mannschaft scese in Italia e vinse di prepotenza il torneo.
1972, 1976, 1980: un “quasi” triplete in ambito europeo che, nonostante l’incompiutezza, non ha uguali nella storia della manifestazione, basato sulla solidità di una scuola imperniata su principi di gioco tradizionali più che sulle mode di un decennio calcisticamente rivoluzionario.

 

 

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