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Proseguiamo la nostra analisi sull’evoluzione di schemi, moduli e strategie delle squadre partecipanti alle fasi finali degli Europei di calcio, parlando delle tre edizioni “quasi” dominate dalla Germania Ovest
Proseguiamo la nostra analisi sull’evoluzione di schemi, moduli e strategia delle squadre partecipanti alle fasi finali degli europei di calcio, parlando delle tre edizioni “quasi” dominate dalla Germania
Gli Europei di Belgio 1972 sono stati probabilmente tra le edizioni più fortunate nella storia di questa rassegna, grazie all’alto livello tecnico e agonistico delle quattro contendenti (Germania Ovest, Unione Sovietica, Belgio e Ungheria) anche se, probabilmente, l’incontro più significativo di questa edizione si è svolto nella fase eliminatoria, una partita che può essere considerata a tutti gli effetti come un autentico spartiacque nella storia del calcio. Il 29 aprile 1972 infatti, nell’andata dei quarti di finale, la Germania sbanca con un netto 3-1 il “tempio” di Wembley in quella che è stata la prima storica vittoria della Mannschaft teutonica in terra inglese, dopo quattro precedenti sconfitte. Ma il significato di questo match non rinvia solamente a motivi di rivalità tra nazioni, bensì anche a logiche di natura strettamente tecnica e tattica: la facilità quasi irrisoria con la quale la i tedeschi hanno maramaldeggiato a Wembley provoca, infatti, una fortissima spaccatura nell’opinione pubblica calcistica inglese. La selezione di Helmuth Schön non solo ha vinto, ma ha addirittura convinto esibendo un calcio che possiamo definire molto simile a quello totale di marca olandese, solamente declinato in una maniera un pochino più cinica ed essenziale. I tedeschi, giocando sempre palla a terra, con Beckenbauer che imposta il gioco dalla difesa e il cecchino Muller che svaria su tutto il fronte offensivo permettendo gli inserimenti dei tanti centrocampisti e attaccanti di qualità presenti nell’undici tedesco, hanno sopraffatto la formazione di casa. Squadra che è rimasta ferma al suo 4-4-2 ortodosso e rigido fatto di corsa e lanci lunghi dalla difesa: un sistema di gioco che ai mondiali del 1966 sembrava avanguardistico e che invece sei anni più tardi sembrava già medioevo calcistico.
Anche la finale del 1972, giocata all’Heysel di Bruxelles il 18 giugno, può essere considerata un esempio di “scontro di stili di gioco”. Da una parte abbiamo la Germania Ovest, nazionale impostata in difesa con marcature a uomo e libero (almeno sulla carta) staccato, un perno fisso a centrocampo (Netzer) attorno al quale giostrano due incursori eclettici (Wimmer ed Hoeneß) ed uno in attacco (Müller), supportato sulle fasce da un’ala pura (Kremers) ed una seconda punta di peso (Heynckes). Dall’altra troviamo invece l’Unione Sovietica allenata dall’ucraino Ponomarev, selezione già a fortissima trazione Dinamo Kiev (ben cinque giocatori) e due soli russi nell’undici titolare. I sovietici sono anch’essi schierati con il 4-3-3, modulo di gioco ormai imperante negli Anni Settanta, ma con un’interpretazione filosofica nettamente agli antipodi rispetto a quella tedesca. La difesa a quattro gioca in linea e applica rigide marcature a uomo nella propria zona di riferimento. Il centrocampo è molto più muscolare e fisico con un difensore aggiunto (Troskin) a fungere da metodista davanti alla difesa, il tridente d’attacco infine prevede un centravanti puro (Banishevski) supportato da due esterni larghi che sfruttano il campo in ampiezza (Bajda?nyj e Onyš?enko). Il Belgio, terzo classificato, è la squadra rivelazione del torneo e rappresenta un po’ la nemesi sia del calcio praticato dai vicini olandesi che da quello della Germania. La selezione allenata da Raymond Goethals pratica un 4-4-2 zonale pratico ed essenziale in piena linea con la tradizione del “difensivismo fiammingo”: la linea difensiva, pur non giocando altissima, riesce spesso ad isolare gli attaccanti avversari attraverso perfetti movimenti di reparto, il centrocampo a quattro conta su due incursori polivalenti al centro (Verheyen e Dockx) mentre i giocatori di fascia hanno compiti differenti: a sinistra Martens è di fatto un terzino aggiunto con puri compiti di contenimento mentre a destra Semmeling è un’ala che però gioca spesso dentro al campo con compiti di trequartista. In attacco infine troviamo un centravanti puro (Lambert) e una mezzapunta fantasiosa come Paul Van Himst, unica autentica stella dei Diavoli Rossi. Infine, al quarto posto troviamo l’ultima grande Ungheria della sua storia calcistica: la selezione magiara si dimostra un buon collettivo che pratica un 4-3-3 zonale abbastanza scolastico e compassato per i tempi, con un solo campione nell’undici titolare (il centravanti Ferenc Bene) e tanti onesti mestieranti.
Quello di Jugoslavia 1976 si preannunciava un europeo che avrebbe rappresentato una sorta di remake della finale di Coppa del Mondo del 1974 tra Germania Ovest e Olanda. Invece tra i due litiganti il terzo gode! A sorpresa la squadra a laurearsi campione è la Cecoslovacchia di Václav Ježek, giunta tra lo scetticismo generale alla fase finale dell’Europeo. La selezione cecoslovacca, a nettissima impronta slovacca (ben otto undicesimi con solo tre boemi: Viktor, Panenka e Nehoda) pratica un calcio molto fisico ed essenziale che però si sposa con un’ottima organizzazione tattica. La linea difensiva a quattro guidata dal capitano Ondruš applica molto bene i crismi della zona, il centrocampo conta su un difensore aggiunto che funge da perno basso (Dobiaš) che serve a fare da “tappo” per i continui movimenti a turbine degli altri cinque giocatori offensivi dove si distingue per importanza tattica il centravanti arretrato Móder, il secondo importante equilibratore del centrocampo con il suo movimento a pendolo. Quello cecoslovacco si può declinare quindi come un 4-3-1-2 abbastanza innovativo per l’epoca. La Germania Ovest, giunta agli sgoccioli del suo fantastico ciclo, viene schierata con lo stesso 4-3-3 di quattro anni prima: in difesa e a centrocampo vengono sempre attuate marcature a uomo mentre l’unica piccola differenza riguarda la composizione del tridente dove Hoeneß parte defilato a destra. La medaglia di bronzo va all’Olanda di George Knobel che per otto undicesimi ricalcava la stessa formazione messasi in luce ai mondiali del 1974. Anche il sistema di gioco è sempre lo stesso, un 4-3-3 che resta tale solo sulla carta, in quanto tutti i dieci giocatori di movimento sono in continuo turbinio sul rettangolo verde, i ritmi di gioco e la condizione fisica però non sono più quelle ammirate nell’apogeo orange del 1974. La Jugoslavia, padrona di casa, infine, è una formazione a forte trazione croata (ben cinque giocatori e tre soli serbi) che pratica un calcio molto arioso, ma allo stesso tempo compassato assai simile a quello sudamericano. In attacco Popivoda funge da punta mobile per gli inserimenti dei due esterni (Džaji? e Žungul) e per i tre centrocampisti Oblak, A?imovi? e Jerkovi? con l’ala sinistra Šurjak che viene addirittura adattata nel ruolo di centrale difensivo nella difesa a zona jugoslava.
Italia 1980: cosa cambia a otto squadre?
L’edizione di Italia 1980 verrà ricordato come la prima rassegna “allargata” ad otto squadre. Nella patria del Catenaccio a dominare è un gioco abbastanza scialbo e speculativo, che contraddistingue un po’ tutte le squadre partecipanti. L’unica eccezione è rappresentata dalla Grecia, squadra qualificatasi a sorpresa alla fase finale e che mostra un 4-3-3 molto dinamico e propositivo (quanto infruttuoso). La Germania Ovest di Jupp Derwall, la squadra vincitrice, non brilla per il gioco espresso, ma mostra per la prima volta la sua nuova veste tattica: un 5-3-2 che in realtà è molto vicino ad un 3-4-1-2 con Kaltz e Briegel esterni di fascia, Rummenigge alle spalle di Hrubesch e Allofs. Sul secondo gradino del podio troviamo il Belgio di Guy Thys, nazionale che a Italia 1980 mostra una delle migliori versioni del cosiddetto “difensivismo fiammingo”: un portiere paratutto fra i pali (Pfaff) e una falange di dieci uomini a proteggere l’area seguendo i principi di un 4-4-2 ultrasimmetrico e con reparti sempre cortissimi. Il Belgio di fatto gioca senza punte perché sia François Van der Elst che Ceulemans sono due centrocampisti offensivi.
Si conferma al terzo posto la Cecoslovacchia, compagine stavolta più equilibrata nella composizione tra i suoi due ceppi etnici (6 slovacchi, 5 cechi); il modulo di gioco della squadra cecoslovacca, allenata in questo europeo dal dottor Vengloš, è sempre il 4-3-1-2 col quale si impose in Jugoslavia. La grande delusa della rassegna europea però è l’Italia padrona di casa, pesantemente colpita dallo scandalo del Calcioscommesse che ha privato al C.T. Bearzot delle sue due punte più forti (Giordano e Paolo Rossi). Il clima tiepido venutosi a creare attorno alla Nazionale non ha aiutato il compito degli Azzurri che hanno mostrato un gioco abbastanza imbolsito rispetto alle trame fluide ammirate in Argentina soltanto due anni prima. Dal punto di vista tattico l’Italia si schiera sulla carta con un 4-3-3 ma di fatto è ferma alle marcature individuali con uno schieramento asimmetrico: a destra, infatti, Causio gioca in appoggio al centrocampo mentre Bettega affianca in attacco Graziani o Altobelli.
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