L’eredità di Brasile-Italia e di Usa 94

L’eredità di Brasile-Italia e di Usa 94

A trent’anni di distanza dalla finale di quel Mondiale, è possibile tracciare un resoconto di quello che lasciò quella manifestazione nel mondo del calcio

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Il 17 luglio 1994 è una delle date nelle quali Brasile e Italia hanno scritto la storia del calcio, disputando la finale del primo Mondiale giocato negli Stati Uniti. A Pasadena, 12.30 ora locale, sotto un sole impietoso che braccava indistintamente pubblico e giocatori, l’arbitro Puhl fischiava l’inizio di una partita che avrebbe deciso la supremazia non solo di quel Mondiale ma anche della storia della manifestazione. Sì, perché le due nazionali a quel match arrivavano con tre titoli vinti a testa. Per il Brasile c’erano sempre state le mani di Pelè ad alzare la vecchia Coppa Rimet al cielo. L’Italia, dopo la doppietta firmata da Vittorio Pozzo negli anni Trenta, si era riscoperta improvvisamente capace di quelle grandi imprese nella magica estate spagnola del 1982. Nessuna delle due squadre assomigliava a quelle che le avevano precedute: per certi versi, il Brasile e l’Italia che scendevano in campo in California si erano scambiate il testimone di portabandiera del calcio spettacolare e di quello pragmatico in un’inversione di tendenze che anticipava la commistione di scuole e idee che caratterizza il gioco degli anni Duemila. ?

La finale

A dire il vero, in quel match, di gioco se ne vide poco. Più che la tensione che irrigidisce i giocatori in qualsiasi finale di un torneo importante, era la stanchezza accumulata nelle partite precedenti a sottrarre energie agli interpreti di un atto conclusivo sacrificato agli interessi degli sponsor e della televisione. Difficile aspettarsi di vedere correre a ritmi elevati calciatori reduci da un mese in giro per gli Stati Uniti, dove le declinazioni del calore di quell’estate erano variate su altissime temperature a tassi di umidità insopportabili. Impensabile qualsiasi forma di velocità, di reiterate accelerazioni in verticale e di frequenti conclusioni verso la porta avversaria. La claudicante presenza in campo di Roberto Baggio, forzata dall’evento nonostante l’infortunio muscolare patito durante la semifinale contro la Bulgaria, portava a sintesi i contenuti tecnici di una gara che, al termine dei tempi supplementari, lasciava poche tracce sui taccuini degli osservatori. I tentativi di Massaro e Branco, il palo di Mauro Silva, gli accenni di scatto del Divin Codino in versione danneggiata erano i pochi dati appuntabili prima di lasciare spazio alle emozioni dei passi tratteggiati da centrocampo verso il dischetto dell’area di rigore, dove andarono a infrangersi le lacrime inconsolabili e definitive di Baresi e Baggio. Nel tempo quel Brasile-Italia non ha assunto i toni dell’iconicità. Non tanto per come è finita per gli azzurri (alla finale del 1970, nonostante la sconfitta, viene riconosciuta un’aura quasi sacrale che, di norma, si riassume nell’immagine di Pelè che sovrasta Burgnich nello stacco aereo del primo gol) quanto per gli scarsi contenuti tecnici e spettacolari che costrinse quel match a condensare nella sequenza dei rigori il suo carico emozionale. Oggi il tempo che si è depositato su quella partita e su quel Mondiale consente di verificarne l’eredità che hanno lasciato e che può essere analizzata per punti.?

Un Brasile “europeo”

Il dato fu immediatamente oggetto di discussione già all’epoca. Il Brasile “tetracampeon” era una squadra che il tecnico Carlos Alberto Parreira aveva costruito ricorrendo agli uomini migliori di cui disponeva che, in quel periodo storico, non rispondevano al tipico calciatore brasiliano tutto palleggi felpati e dribbling fini a se stessi. L’estetica non era l’elemento primario nella proposta di gioco dei verdeoro, schierati a centrocampo con giocatori razionali (Dunga e Mauro Silva centrali, Mazinho e Zinho sulle fasce), che davano copertura a difensori di ottima tecnica di base supportati da una fisicità accentuata (i centrali Marcio Santos e Aldair). La fase offensiva faceva perno su terzini di spinta dinamici (Jorginho, Cafu, Branco) e due attaccanti che, contrariamente al resto della squadra, riflettevano appieno il DNA del calciatore brasiliano: Bebeto e Romario. Veloci, istintivi, raffinati: erano loro a ricordare al mondo che quella squadra rappresentava il Paese del futebol dançado. In molti sostennero che quel Brasile aveva sposato quella forma di espressione perché i suoi uomini (dei tredici che scesero in campo nella finale, solo Cafu, Zinho e Viola non giocavano, o non avevano mai giocato, in Europa) avevano conosciuto e imparato il tatticismo che permea i tornei del vecchio continente. In realtà, in questo tipo di considerazione, bisogna dare il giusto peso al fatto che quei giocatori avevano caratteristiche tecniche asciutte, poco portate a esprimere un calcio incline ai ricami. Molto probabilmente un centrocampista come Dunga non sarebbe mai stato niente più che essenziale anche se avesse tracciato tutto il suo percorso professionale nel campionato brasiliano. Il fatto che quei calciatori si fossero confrontati con le competizioni europee, soprattutto la Serie A, fu un elemento di esperienza che corroborò delle inclinazioni naturali.

L’acme di Baggio

USA 94 ha costituito per Roberto Baggio il momento più elevato della sua carriera. Vincitore della Coppa Uefa e del Pallone d’Oro l’anno precedente, il talento di Caldogno arrivava negli Stati Uniti a ventisette anni al culmine delle sue capacità espressive, sia tecniche che mentali. Il Mondiale doveva essere la piattaforma globale sulla quale dimostrare non solo la sua immensa qualità ma anche le doti di leadership che molti, in passato, gli avevano rimproverato di non avere. Il torneo, per lui, cominciò nel peggiore dei modi. Dopo l’insipido esordio con sconfitta contro l’Irlanda, nel secondo match con la Norvegia rimase in campo una manciata di minuti, sacrificato da Sacchi alla ragion di Stato in seguito all’espulsione di Pagliuca. Negli scontri diretti, dove la squadra aveva più bisogno di lui, si esaltò nella sua classe sconfinata, salvando Sacchi, la sua ideologia e il cuore di una nazione. Ma fu proprio lì, nel posto dove i sogni sembrano a portata di mano, che si infransero quelli di Baggio, che quella coppa del mondo la desiderava da bambino, che un rigore decisivo per vincerla avrebbe dovuto segnarlo per entrare in quel libro nel quale Pelè e Maradona avevano capitoli che nemmeno Cruijff era riuscito a farsi dedicare. L’infortunio nella semifinale contro la Bulgaria, dopo una meravigliosa doppietta che ne amplificava lo strepitoso stato di forma, fu la croce sulla quale immolò la sua prestazione nella finale. Quell’ultimo rigore, che avrebbe potuto significare la resurrezione per lui e per l’Italia, di divino gli lasciò solo il codino, legandolo per sempre al rammarico tipico di ogni uomo: quello dell’errore.

L’ultima volta del Pibe

Per averlo negli Usa si erano fatte carte false per via della luce che emanava la sua immagine, capace, da sola, di illuminare un torneo sul quale la FIFA puntava moltissimo per il rilancio del soccer negli Stati Uniti. Gli concessero tutto per rientrare in forma ed essere pronto per il grande evento. Lui si era reso disponibile per amore del calcio, di se stesso e della gente. Non era più il giocatore inarrivabile di otto anni prima ma era pur sempre Diego Armando Maradona: il Pibe de Oro, il calcio incarnato in un uomo. Il 21 giugno 1994 tornò a segnare contro la Grecia: erano sette anni che non realizzava un gol importante con la maglia della nazionale. L’ultimo risaliva al 2 luglio 1987 quando, da campione del mondo, aveva fatto una doppietta all’Equador in Coppa America. I successivi (contro Urss, Israele e Marocco) li aveva messi a referto in partite di poco conto. L’immagine della sua esultanza fece il giro del mondo. Era un’immagine che riusciva a raccontare la complessità di un uomo che, a nemmeno trentaquattro anni, conosceva la vita più della maggior parte degli ottantenni. Successo, fama, gloria personale, denaro e gioie collettive si erano velenosamente intersecate con il dolore della solitudine, la debolezza delle donne e della droga, l’illusione dell’onnipotenza. Nell’urlo sfoggiato a favore di telecamere dopo quella rete c’era la rabbia del passato che si convertiva nella forza di un presente che, in quell’attimo fugace, sembrava dargli nuove prospettive. Non fu così, per le ragioni che, più o meno, si conoscono. La squalifica per doping tolse Maradona dal mondiale, ormai avviato verso un successo per il quale lui era diventato ormai un impaccio. El Diez il 25 giugno scese in campo a Boston contro la Nigeria non sapendo che non avrebbe più vestito la maglia dell’Argentina. Usa 94 regalò l’ultima scintilla ai mondiali di un campione capace di lasciare un segno oltre il suo tempo. ?

Making soccer history

Era il claim di quel torneo. Una sorta di profezia che poi si è avverata. Dopo l’esperimento fallimentare degli anni Settanta, quando a suon di dollari si convinsero campionissimi in età matura ad andare a giocare nelle squadre della North American Soccer League, il calcio negli Stati Uniti aveva vissuto anni di grossa crisi. L’assegnazione dei mondiali del 1994 aveva lo scopo di recuperare un Paese dal potenziale enorme per investimenti, pubblico e praticanti: ecco perché quel claim. Era un secondo tentativo, senza appello. Un all-in che, se non avesse funzionato, avrebbe probabilmente chiuso ogni possibilità di sviluppo del calcio in Nord America anche negli anni futuri. Le cose, invece, volsero al meglio. Il traino iniziale, oltre alla presenza di Maradona, fu il buon andamento della nazionale: gli Usa di Bora Milutinovic, passato il girone risultando tra le migliori terze, si arresero solo ai futuri campioni del Brasile giocando alla pari. La scintilla dell’interesse era scattata anche all’interno del Paese: la World Cup non era più solo una kermesse organizzata per il resto del mondo. Si cominciarono ad analizzare i gesti delle esultanze dei calciatori, Roberto Baggio venne soprannominato the Italian Buddhist pony tailed e il brasiliano Leonardo venne biasimato per la violenta gomitata con cui ruppe il cranio a Tab Ramos. In altre parole, il calcio fece i primi passi per diventare oggetto di attenzione collettiva. Oggi negli Stati Uniti c’è una lega che funziona e nel 2026 saranno loro a ospitare la maggior parte degli incontri della Coppa del Mondo. Pragmaticamente, sono queste le eredità più tangibili di Usa 94. ?

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