Una Vitas al massimo

Una Vitas al massimo

Tennista di origini lituane, ma nato e cresciuto a New York, Gerulaitis unì genio e sregolatezza, vinse ma si divertì anche nell'era dei grandi che si chiamavano Borg, McEnroe e Connors

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Una botta di Vitas. In tutte le molteplici accezioni, alcune un passo oltre la soglia del proibito, che ogni lettore vorrà individuare in questo incipit. C'entra il gioco di parole con il nome, quasi scontato; c'entrano quelli che agli occhi degli altri erano eccessi, che sarebbero stati giudicati tali anche se non si fosse trattato di un atleta di alto livello; c'entra soprattutto l'esistenza, quella che a volte non basta nemmeno a se stessa, che certamente in questo caso traduce quel tanto, troppo di incompiuto che resta quando la clessidra contiene già in partenza cosi pochi granelli; con tutto quello che in più avremmo voluto raccontare nel caso di uno i cui giorni hanno sempre avuto la densità di un litro e mezzo di acqua gasata compressa in una bottiglia da un litro. Ci perdonerà, il protagonista, se per una volta adoperiamo l'acqua.

Sullo sfondo sta il tennis, non inteso come disciplina sportiva ma in quanto compendio di filosofia esistenziale con una rete in mezzo, a delimitare il confine tra ciò che è stato e quello che sarebbe potuto accadere; tra l'esibizione di un talento cristallino e la malinconia per ciò che a esso sarebbe sempre mancato. Le imperfezioni di un genio risaltano sempre più rispetto a quelle degli altri, negli occhi degli altri. Il genio resta di per sé inconsapevole sia del talento che delle mancanze, altrimenti non sarebbe un genio.

 

Dalla Lituania a New York

Oggi compirebbe settant'anni Vitas Gerulaitis, nato a Brooklyn il 26 luglio del 1954, da genitori lituani e tennisti di ottimo livello, in particolare il padre che era stato numero uno in patria. Nel cognome le radici d'una sponda geograficamente e ideologicamente opposta dell'oceano; nel tracciato familiare la pratica di uno sport per il quale la sottigliezza delle sue fibre muscolari sarebbe stata al tempo stesso croce e delizia: mobilità elegante e flessuosa, un diretto mai troppo potente al punto da risultare decisivo. In compenso, il suo rovescio sin dall'esordio avrebbe offerto la similitudine con gli effetti di un affilatissimo rasoio, di quelli la cui lama basta sfiorarla con il polpastrello per dover poi tamponare le chiazze di sangue.

Gerulaitis, lo stratega

Non aveva la solidità di Jimmy Connors, l'intensità di McEnroe nelle giornate migliori e nemmeno la completezza di Björn Borg; era però in grado di scegliere la strategia migliore per fare filo da torcere a ognuno dei tre, indipendentemente dal fondo sul quale si sarebbero affrontati, perché la sua versatilità favoriva l'adattamento a ogni tipo di superficie. La sua partita più fulgida per quanto riguarda il picco delle prestazioni è stata probabilmente quella culminata in una "memorabile" sconfitta, ossia la semifinale di Wimbledon del 1977, contro Borg, risoltasi in cinque set sotto lo sguardo attentissimo di mezzo mondo. Un paradosso magnifico, per uno che incarnava mille e una contraddizioni.

Gerulaitis ha vinto gli Australian Open nel 1977, gli Internazionali d'Italia nel '77 e nel '79; è stato finalista all'Us Open nel '79 e al Roland Garros nel 1980. Aveva vinto il doppio a Wimbledon nel 1975.

Numeri, statistiche; buoni per quella parziale versione della storia che passa attraverso gli almanacchi, i quali rendono l'idea della competitività e della soglia agonistica di un atleta, ma ai quali mancheranno sempre tutte le sfumature utili a rendere la grandezza di un personaggio; la sua completezza che passa attraverso la complessità.

 

Una “Vitas” tra racchette e champagne

 

Gerulaitis viene ricordato come uno dei grandi irregolari della storia dello sport, per una serie di eccessi degni del miglior (o peggior, a seconda dei punti di vista) George Best, per affidarci a una similitudine calcistica. Certamente, in ragione dei suoi fiumi di champagne e di qualche altro eccesso meno riferibile, del coraggio di presenziare in un locale notturno in accappatoio o di una collezione di fuoriserie da far invidia a un emiro, Ferrari comprese. Ridurre le sue intemperanze al tradizionale solco rappresentato da promiscuità sessuale, stravizi e lussi vari vorrebbe dire relegare la sua irregolarità in un ambito troppo banale e per nulla originale. Ci sono ex colleghi di Gerulaitis che ricordano ancora oggi che hanno conosciuto le mostre d'arte e i grandi romanzieri del Novecento grazie a lui; del resto trovate un altro sportivo che tra le sue frequentazioni abituali poteva annoverare Andy Warhol o Truman Capote.

Aveva quarant'anni soltanto, quando i suoi polmoni si riempirono di monossido di carbonio a causa di una stufetta difettosa, a casa di un amico, a Long Island; tanta filosofia esistenziale da distillare a beneficio di chi avrebbe saputo coglierne l'unicità; tante battute da elargire anche come commentatore televisivo, brillante e mai banale.

Al funerale, quel giorno di settembre del 1994, la sua bara la portarono Jimmy Connors, Bjorn Borg e John McEnroe: tutta gente che nella giornata giusta lui sarebbe stato in grado di sconfiggere. Se non accadde come sarebbe potuto accadere, in tutte le occasioni in cui c'era andato vicino, è perché attraverso le crepe dell'imperfezione passa a volte la luce che resta addosso ai re senza corona, diversamente indimenticabili.

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