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Nato a San Vito Romano il 2 agosto del 1954, "Kawasaki" come venne soprannominato dai suoi tifosi, avrebbe meritato senza dubbio una carriera più lunga
Un delta di cicatrici ramificate all'altezza della rotula sinistra, ramificate come le linee del destino: nella consapevolezza di dove è sfociato, nel pensiero di come sarebbe potuta andare la sua storia se non portasse memoria di quei geroglifici chirurgici, con il ginocchio piegato all'interno sotto il peso della sorte.
Sinistro è anche il lato del cuore, quello che un uomo come Francesco Rocca ha sempre speso nel sostenere tutto quello in cui ha creduto: da calciatore anche un poco oltre la ragione, indotta dalle spietate diagnosi; da tecnico e maestro cercando di proteggere il gioco, e la dedizione che occorre per onorarlo al massimo, da tutto il ciarpame che lo ammanta e lo inquina.
Oggi che compie settant'anni, con una cornice di rughe d'espressione che impreziosiscono quel sorriso così raro, così rado, con quella specie di smorfia a labbra serrate, come se anch'esse mimassero l'incisione di un bisturi, per parlare di Francesco Rocca non abbiamo bisogno del consueto piglio celebrativo che si esercita in queste occasioni: il miglior riconoscimento che possiamo tributargli è continuare a pensare di lui ciò che abbiamo sempre pensato. Del suo straripante talento che procedeva di pari passo, in continua accelerazione, sulla fascia di competenza; del fatto che il calcio italiano ha dovuto fare a meno di lui troppo presto quand'era calciatore e voluto fare a meno di lui proprio quando di uno così avrebbe avuto più bisogno. Tanto più bisogno e con molta più responsabilizzazione rispetto a ciò che la Federazione gli ha affidato e per quanto tempo.
Venuto alla luce, nitida e striata di vento fresco, di San Vito Romano il 2 agosto del 1954, quello stesso vento sembrava soffiargli alle spalle sin dai tempi del Bettini Quadraro; vento ascensionale, come la carriera che avrebbe meritato, sin da quando Helenio Herrera capì che quel ragazzo aveva sotto il turbo prima ancora che i francesi lo inventassero, perché dalla prima porzione della propria metà campo te lo ritrovavi nella trequarti avversaria con un'accelerazione da "effetto suolo", nel senso che più aumentavano i giri, più la palla restava appiccicata al piede. Le gambe sono due, però, non quattro come le ruote di un'automobile; il soprannome allora fiorì dall'ambito motociclistico: Kawasaki, marchio nipponico di affidabilità assoluta, già all'epoca, oltre che sinonimo di velocità; beffardo sarebbe suonato di lì a qualche tempo, perché Rocca ne avrebbe onorato soltanto questa seconda caratteristica, tradito ben presto dalla prima.
Della Roma dal '72, romanista per sempre: sono due cose diverse, due discorsi che hanno dovuto procedere parallelamente, quando invece all'inizio sembravano convergere in tutto e per tutto; perché ci mise poco a dimostrare tutto il suo valore Francesco Rocca, che a vent'anni e dopo il fallimento della Nazionale al Mondiale tedesco del '74 era già entrato nel novero dei papabili per costruire l'Italia della rinascita.
10 ottobre 1976, Roma - Cesena: Rocca sente una fitta fastidiosa al ginocchio sinistro dopo uno scontro con Bittolo, all'inizio di una gara che disputerà per intero. Non è certo uno che si risparmia, nemmeno se, come in quel caso, avverte un dolore crescente. Subito dopo la gara il ginocchio si gonfia, persistente si fa il dolore, notte compresa. Il 16 però c'è la convocazione con l'Italia, contro il Lussemburgo. Kawasaki pur di onorare la maglia azzurra si staccherebbe una gamba per scagliarla addosso a un avversario, figuriamoci se non intende convivere con un dolore. Con il benestare dei medici, maledetta ignoranza della medicina sportiva dell'epoca, onora la convocazione: prestazione tutt'altro che memorabile, Rocca non era lui e il giudizio sui quotidiani è unanime, a cominciare dalla insufficienza con la quale lo valuta Gianni Brera, che di lui ha enorme stima.
Tre giorni dopo, al Tre Fontane, il ginocchio cede da solo, durante un palleggio. Il dolore cambia stadio, al punto da fargli perdere i sensi per qualche istante; il fastidio diventa un calvario. Uno dei più promettenti calciatori della sua generazione, non solo in ambito italiano, comincia a convivere forzatamente con un dubbio più persistente rispetto al dolore; con le diagnosi, con l'obbligo di fermarsi ciclicamente dopo qualche buona, a volte buonissima partita. In meno di cinque stagioni, fino al termine del campionato '80 - '81, la punteggiatura della sua resilienza saranno cinque interventi chirurgici. Cinque. Dopo ogni sosta in officina, Kawasaki si convince di poter tornare ad aprire la manopola del gas fino al massimo dei giri. Ogni volta, il dolore si ripresenta, il gonfiore avvolge il ginocchio e un ragazzo che prometteva come pochi altri fa parlare di sé più per i dubbi sulla sua condizione che per l'apporto che può dare alla Roma. Nel mentre, non smette mai di essere un idolo per la tifoseria giallorossa: se è vero, come è vero, che la Roma è innanzitutto un'entità sentimentale, uno come Rocca che ci mette cuore e appartenenza viene considerato come un'appendice della Curva Sud sul terreno di gioco. Anche se il ginocchio glielo nega sempre più spesso, quel fondo erboso che pare fatto apposta per farsi mitragliare dai suoi tacchetti, i proiettili delle sue accelerazioni.
All'alba della stagione '81 - '82, durante il ritiro pre campionato, Kawasaki ha compiuto da poco ventisette anni e deve prendere confidenza con un dolore che nessuna anestesia può placare: dopo l'ennesima fitta, l'ennesimo gonfiore, deve annunciare che è tempo di rinunciare. Di lasciar andare quel sogno che era nato assieme a lui, che a ventidue anni si era già meritato la Nazionale e molto prima dei trenta non sostiene neanche una partitella senza soffrire.
Nell'amichevole del 29 agosto 1981 allo Stadio Olimpico, contro l'Internacional di Porto Alegre, disputa una ventina di minuti scarsi per salutare il suo popolo; gli rimbomba nelle orecchie quel "Lode a te Francesco Rocca!" dolente e tonante da parte della Sud; il coro sembra ritmare quella parte di storia che lui s'era ampiamente meritato e che non potrà percorrere. La grande Roma di Dino Viola è un fiore in boccio, che sta per aprire definitivamente i petali fino allo scudetto del 1983; Rocca non potrà farne parte, eppure Falcão se ne ricorda, negli spogliatoi del Luigi Ferrariis di Genova, col Tricolore appena vinto, quando dice che quel percorso è stato merito anche di gente come Kawasaki, che alla Roma nel tempo ha continuato a voler bene senza un minimo di presenzialismo; che era in Curva Sud in quella notte, maledetta come una fitta al ginocchio sinistro, del 30 maggio '84 contro il Liverpool e pochi lo sanno perché a pochi volle farlo sapere, prima.
C'è una fotografia che colpisce, tra le tante che lo ritraggono su un letto d'ospedale, dopo uno dei tanti bisturi della speranza: quella in cui si vede Pietro Mennea che era andato a fargli visita. I due parlano amichevolmente e la simbologia è gigantesca: sono due asceti dello sport, due uomini che alla loro passione hanno devoluto tutto e Rocca, in particolare, essendo un calciatore, è una mosca bianca in mezzo a quelli della sua epoca; in mezzo a quegli sportivi che guadagnano troppo di più e si sacrificano tanto meno rispetto agli altri atleti. Perché per lui, tanto come giocatore che come tecnico, il bello del calcio è sempre stato il calcio stesso, assieme alla riconoscenza dei tifosi: non il successo, i soldi, le fuoriserie, le belle donne. Ha cercato di predicare ogni volta che ne ha avuto possibilità questo suo mantra, in pochi lo hanno ascoltato proprio perché l'autenticità non paga, non sempre.
La sua storia, a braccetto con l'ineluttabilità del destino, ci lascia un insegnamento ancora, oltre ai tanti che già sappiamo: gli eroi non sono soltanto quelli che compiono le imprese, ma anche quelli che debbono rinunciarci, a volte avendo meritato più degli altri.
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