Carboni: Io, Juve-Roma e il meme di Mazzone

Carboni: Io, Juve-Roma e il meme di Mazzone

L'ex esterno della Roma racconta il calcio dei suoi anni, le sfide contro i bianconeri e la celebre frese dell'ex allenatore della Roma

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Da piccolo rientrava a casa al tramonto, quando il sole fischiava tre volte, avvolto dalla compagnia dei fratelli maggiori, tra l’altro attaccanti. «Sai, era la vita dei paesi, si giocava e basta: a volte sorrido se sento qualcuno che si lamenta per i rimbalzi del pallone…». Da lì, dalle strade e da Arezzo, è partita una carriera con pochi precedenti, che l’ha portato a diventare una leggenda al Valencia, passando prima dalle giovanili della Fiorentina con Sacchi, dal Parma di Zeman, dalla Sampdoria di Boskov e dalla Roma di Mazzone. Amedeo Carboni in giallorosso ci è rimasto per sette stagioni, dal 1990 al 1997, vincendo una Coppa Italia e totalizzando 230 presenze. Dopo l’addio di Giuseppe Giannini la fascia da capitano è passata sul suo braccio. «Ogni volta che incontro Francesco Totti gli ricordo che sono stato il suo capitano…», dice scherzando l’ex terzino sinistro, forse il giocatore più costante dell’era moderna. La Roma non era una squadra da scudetto negli Anni 90, ma si è tolta parecchie soddisfazioni in quel periodo in ambito nazionale e internazionale (vedi la finale di Coppa Uefa). Una delle tante? Battere la Juventus al Delle Alpi nel dicembre del 1995: nell’almanacco brilla un 2-0 firmato dalla rete di Balbo e dall’autogol di Ferrara.  

Carboni, si ricorda quella partita? 
«Certo, la Juve era la squadra da battere. Vincere in trasferta a Torino non era semplice. Fu davvero una bella giornata. A fine gara gli avversari furono sportivi, tanto che venne Lippi nello spogliatoio a farci i complimenti. Mazzone rispose: “Bravo Marcello, mi piaci così”». 

Che allenatore era Mazzone? 
«Te ne diceva di tutti i colori e poi ti abbracciava. Aveva un cuore grande e anche una parte un po’ più oscura. E’ passato alla storia come un tecnico difensivo, ma in realtà la sua Roma era super offensiva». 

Un aneddoto di quel Juve-Roma? 
«Prima del fischio d’inizio Collina e Lippi stavano parlando nel tunnel: erano di Viareggio e si conoscevano molto bene. Mazzone li vide lontano e gridò: “Oh baciavate voi”. Era leggermente prevenuto (ride)». 

E’ vera la storia del siparietto di Cagliari che è diventato un meme? 
«Sì, però qualche gol l’ho fatto, per esempio contro il Bröndby su assist di Totti. Era una cosa che si ripeteva di più in allenamento ma è successo anche in partita. Mazzone: “Amede’, quante partite hai giocato in Serie A?". Io: "Tante, mister". Mazzone: "E quanti gol hai segnato?". Io: "Quattro, mister". Mazzone: "Aò, e allora ‘ndo cazzo vai?”. Essendo il più veloce della squadra voleva che fossi pronto per un eventuale contropiede. Per fortuna non sono un tipo permaloso». 

Che città era Roma in quel periodo? 
«In Italia si viveva il boom economico e sociale. La Capitale era in fermento, c’era anche tanta politica. Andreotti era tifoso della Roma: ho detto tutto». 

Cosa ha significato essere capitano? 
«La fascia è una responsabilità nel bene e nel male. I tifosi erano caldissimi, a volte però c’erano delle contestazioni. Essere capitano a Roma ti riempie ma non sempre è facile».

Il capitolo giallorosso però finisce dopo sette anni… 
«C’era stata una discussione con il presidente Franco Sensi nel periodo di Bianchi. Aveva messo gli allenamenti alle 7.30 di mattina con gente che veniva da Parioli e da altre zone della città. E poi ci furono altre circostanze che incisero».

Cioè?  
«Trotta per esempio aveva carattere e voleva battere tutte le punizioni e i rigori. Si creò del malumore. I risultati non arrivarono nonostante il duro lavoro». 

La parola fine nel 1997. 
«Avevo firmato per la Juventus, dovevo andarci insieme a Fonseca, ma mi ruppi il tendine d’Achille a maggio. Nonostante un altro anno di contratto andai via. Vedevo solo nero. Avevo 32 anni e pensavo che la mia carriera fosse finita. Quella è stata una grande lezione che ripeto a tutti i ragazzi che incontro sul mio cammino: “Anche nella stanza più buia c’è luce, sta a te trovarla…”».

La sua luce? 
«Vado in Finlandia e mi opero a mie spese. Ho sempre fatto tutto da solo, non ho mai avuto un procuratore. Sakari Orava era il medico, lo stesso che ha operato Spinazzola molti anni dopo. Ad agosto ero già in campo, un recupero lampo: ero pronto per iniziare l’avventura al Valencia». 

Una scelta fuori dal coro: gli italiani non andavano all’estero. 
«Chi andava fuori perdeva la possibilità di giocare in Nazionale: funzionava così. Ho preso questa decisione in controtendenza ma con il cuore, ragionando a 360°. Eravamo pochi a scegliere altri campionati. Oltre a me in Spagna, c’era Zola in Inghilterra».

Il Valencia diventa una favola. 
«Vinciamo tantissimo, anche due campionati nella Liga lasciandoci alle spalle Real Madrid e Barcellona. Trionfiamo anche in Coppa del Re eliminando Real, Barcellona e Atletico Madrid: il Re in persona ci consegna un trofeo che a quei tempi valeva tantissimo, non come adesso che schierano le riserve. Anche in Europa voliamo: due finali di Champions, la Coppa Uefa e la Supercoppa». 

Il segreto? 
«Non prendevamo gol, mai. Difendevamo e attaccavamo tutti insieme. Nel primo campionato il capocannoniere fu Ruben Barajca con 7 gol. Cuper e Benitez sono stati grandi allenatori e poi c’erano tanti campioni in squadra. A Valencia resto nove stagioni e divento anche direttore sportivo quando smetto con il pallone, superata la soglia dei 40 anni».   

Rimpianti? 
«Pochi, rifarei tutto. Però mi sarebbe piaciuto chiudere la carriera negli Stati Uniti d’America. L’offerta c’era, non era una questione economica ma di vita, per me e per la mia famiglia. Ho sempre avuto una propensione per il marketing e il business…». 

Cosa fa oggi Amedeo Carboni? 
«Sono socio di MolcaWorld, un’azienda che si occupa di ammodernare gli stadi. Siamo partiti dal Mestalla e siamo arrivati in ogni angolo del mondo, fino in Messico e in Arabia Saudita».  

Vedrà Juve-Roma? 
«Il calcio continuo a seguirlo da spettatore».

Che partita si aspetta? 
«Le prime giornate non possono rappresentare un metro di giudizio definitivo. Anche perché si gioca con il calciomercato aperto: una stortura del sistema. Del resto, puoi partire male e finire bene, così come fare al contrario. La stagione è lunghissima e le dinamiche che si innescano non sono tutte sotto controllo. Quindi per me è una sfida aperta a qualsiasi risultato». 

De Rossi contro Thiago Motta: due allenatori agli inizi. 
«Vengono da annate molto positive, ma adesso devono confermarsi, stando alla guida di due grandi club fin dal primo giorno del raduno. Hanno squadre forti, sulla carta costruite per fare bene. Roma è una piazza esigente, ma anche a Torino non è una passeggiata. Se lì arrivi secondo hai fallito». 

La questione Dybala intanto si è risolta. Può essere davvero il valore aggiunto per la Roma? 
«Se trova entusiasmo e continuità la Roma può diventare una mina vagante in campionato. Anche se la vedo meglio su competizioni come l’Europa League o la Coppa Italia. Ma è chiaro che l’argentino deve giocare tante partite di seguito.. Non è semplice farlo coesistere con Soulé. Sono due mancini, ma sono convinto che De Rossi riuscirà a trovare una chiave».   

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