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Era il 16 settembre 1984 quando il Pibe de Oro giocò la sua prima partita nel nostro campionato: il Verona, che quell’anno avrebbe vinto lo scudetto, vinse 3-1
C’era un tempo in cui l’estate finiva quando cominciava il campionato. Più ancora che il rientro dalle ferie e l’inizio delle scuole, quando la nostalgia delle vacanze era parte integrante delle giornate e in qualche modo le prolungava, era la prima giornata della serie A a segnare inequivocabilmente l’inizio di un nuovo anno, scandito di impegni da incastonare in una routine che la domenica dopo pranzo prevedeva il rito collettivo dell’ascolto delle partite. Che, in contemporanea, venivano giocate sui campi di tutta Italia.
Domenica 16 settembre 1984 segnò l’inizio di un’annata che avrebbe rivoluzionato le gerarchie del calcio italiano. Un giorno che è passato alla storia per via dell’esordio nel nostro campionato di Diego Armando Maradona, arrivato a Napoli appena due mesi prima, accolto come un messia al quale l’intera città delegava tutte le sue possibilità di riscatto. Un onere che sarebbe stato insostenibile per chiunque tranne che per lui, ragazzo non ancora ventiquattrenne forte di un talento che aveva plasmato il suo destino. Ai piedi del Vesuvio aveva subito trovato quell’affetto di cui aveva bisogno dopo la difficile esperienza fatta a Barcellona, suo primo approdo in Europa, dove aveva trascorso i due anni precedenti ricevendo più ostilità che apprezzamento. Inequivocabili le sue dichiarazioni alla vigilia: “In Spagna mi hanno ferito fino a umiliarmi, non potevo andare più avanti”. Addio Catalogna ingrata. Napoli lo accolse chiedendogli quello che sembrava impensabile, donandogli l’impossibilità della sua iperbolica passione. Dopo le amichevoli estive e i match di Coppa Italia, il 16 settembre 1984 era il giorno che attendeva l’ingresso del Pibe de Oro nel campionato (all’epoca) più bello del mondo. La prima partita l’avrebbe giocata al Bentegodi, campo che vedeva il Napoli imbattuto dall’ormai lontano 20 febbraio 1977, quando gli azzurri si erano imposti per 0-1.
Le aspettative erano elevate: per la squadra allenata da Rino Marchesi, per il Verona di Bagnoli e per tutto il pubblico italiano. L’attesa si percepiva ovunque: tra i diecimila tifosi che dalla Campania si erano mossi al seguito della squadra; nel messaggio che il sindaco di Napoli, Mario Forte, aveva mandato al fuoriclasse argentino; nei tentativi spasmodici che i giornalisti di tutto il mondo facevano per ottenere anche una sola dichiarazione del Diez. Dall’altro lato della barricata, Verona-Napoli si viveva senza paura ma con le dovute preoccupazioni. Le marcature a uomo erano l’unica arma ritenuta efficace per arginare i campionissimi come Diego. Per le dichiarazioni precedenti la gara, avrebbe dovuto essere Mauro Ferroni a farsi carico di inseguirlo ovunque, sulla falsariga di quanto aveva fatto al Mundial due anni prima Claudio Gentile. Il campo, poi, disse altro, svelando l’inganno di affermazioni che rientravano nell’ambito di quella pretattica che oggi non si pratica quasi più. Sin dal primo minuto, infatti, ad appiccicarsi al corpo sgusciante di Maradona fu Hans Peter Briegel, gigante teutonico ex decatleta che, in passato, aveva castigato il Napoli in Coppa Uefa con il suo Kaiserslautern, attirando l’attenzione dei dirigenti partenopei: se non fosse arrivato Diego, sarebbe stato lui a occupare uno degli slot dedicati agli stranieri del Napoli. Un duello impari quello deciso da Bagnoli: per potenza, categoria in cui il tedesco stravinceva; per valore tecnico, dote che Maradona ostentava per distacco su chiunque.
Quella partita non aveva un pronostico segnato: la sua imprevedibilità viaggiava tra la collaudata organizzazione di gioco che il tecnico gialloblù aveva costruito negli anni e i colpi di genio che potevano ispirare il duo argentino Maradona-Bertoni. Verona-Napoli si sbloccò al 26’ quando Briegel, dominante in area di rigore, con un colpo di testa indirizzò il pallone alla destra di Castellini, giaguaro addomesticato nell’occasione. Arrivò pochi minuti più tardi il raddoppio di Galderisi: un gol con il quale gli scaligeri si tolsero la maschera, aprendo le ali di un volo che li avrebbe portati a raggiungere la vetta della loro storia, passata e futura. Nel secondo tempo Bertoni dimezzò lo svantaggio con un gol di fattura sopraffina. Ma fu solo un lampo, episodico come i pochi numeri che Maradona lasciò intravedere, intrappolato nell’attenzione ossessiva che Briegel dedicò ai suoi movimenti. Sarà Di Gennaro, a un quarto d’ora dal termine, a rendere il risultato pronto per la schedina del Totocalcio.
Per Diego l’impatto fu duro, quasi un riflesso condizionato di ogni suo esordio che, con la sola eccezione di quello fatto con la maglia del Boca, aveva sempre coinciso con una sconfitta anche in passato, sia con l’Argentinos Juniors che col Barcellona. Lui non si abbatté, sapendo che la strada da percorrere sarebbe stata lunga: “Più che cominciare, è importante finire bene” aveva fatto appuntare sui taccuini dei cronisti alla vigilia. Un’affermazione ancor più utile in un post-partita nel quale, alle spiegazioni degli sconfitti, fece eco la soddisfazione dei vincitori, proiettati verso uno scudetto da ricordare per sempre. Diego avrebbe dovuto aspettare. Ma in cuor suo sapeva che il tempo era dalla sua parte.
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