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Il mitico allenatore dei meno 9 oggi compie 86 anni e ancora ricorda i tempi eroici: «Non si può dimenticare l’impresa»
Una vita per il calcio, a scovare talenti, a insegnare schemi e a lavorare sulla testa e la mentalità dei calciatori. Eugenio Fascetti compie 86 anni, due dei quali passati sulla panchina della Lazio. Due stagioni indimenticabili, nelle quali è riuscito a lasciare il segno e un ricordo indelebile nel cuore dei tifosi e degli appassionati. Ha legato il suo nome al biennio più intenso e romantico della storia biancoceleste. Prima la salvezza ottenuta negli spareggi di Napoli, al termine di una stagione nata con una penalizzazione di nove punti, poi la promozione in Serie A: «Sono stati i due anni più intensi della mia vita - ricorda -, non ho parole per ringraziare i laziali per l’affetto che nutrono ancora nei miei confronti».
Un amore nato e cresciuto grazie al lavoro, allo spirito battagliero e alla capacità di saper tenere unito un gruppo che ha fatto la storia. «Chi non se la sente è libero di andarsene, ma chi resta deve lottare fino alla fine. Io rimango». Con queste parole Eugenio Fascetti si presenta ai suoi giocatori nel ritiro di Gubbio: una squadra frastornata dalle decisioni della Giustizia Sportiva. Parole che scuotono la squadra e che la rendono ancora più forte: nessuno si tira indietro, tutti sono pronti a seguirlo, per iniziare un’avventura che si trasforma in leggenda. «Quel discorso nasce dalla chiarezza. Sono sempre stato chiaro con tutti e in un’occasione come quella era necessario esserlo ancora di più. Chi voleva rimanere doveva farlo, libero da qualsiasi problema o condizionamento. Non avrei mai accettato che a metà campionato qualcuno lamentasse il fatto di essere stato costretto a giocare in quella condizione. Dovevano essere tutti d’accordo».
A distanza di anni, ha avuto paura che qualcuno si tirasse indietro?
«No. Ero straconvinto che tutti mi avrebbero seguito. Non ho avuto il più piccolo dubbio. D’altronde era una squadra di uomini veri che non si sarebbero tirati indietro davanti a una battaglia del genere. In quel gruppo c’erano dei giovani che venivano dalla C, come Gregucci e Camolese, ma c’erano anche giocatori che avevano giocato la Coppa dei Campioni».
Più facile rapportarsi ai giovani o ai calciatori esperti?
«La cosa più bella di quel gruppo è che non c’erano differenze. Un Pin e un Caso che avevano vinto degli scudetti in A, si sono messi al livello di chi giocava in una piazza come Roma per la prima volta. È stato il segreto di quella squadra».
Prima la salvezza, poi la promozione. Possibile classificarle? Scegliere l’esperienza più gratificante?
«A livello di emozioni no, sono state due esperienze straordinarie che mi hanno regalato due gioie incredibili. Una differenza però c’è...».
Quale?
«L’anno del meno nove abbiamo espresso un calcio bellissimo. E se a un certo punto non fossimo crollati fisicamente, potevamo addirittura lottare per qualcosa di diverso. Ci fu un periodo, a metà stagione, che eravamo più vicini alla lotta promozione che a quella retrocessione. Il secondo anno invece, se proprio devo essere onesto, la Lazio non giocò un calcio bellissimo. Eravamo considerati da tutti come la squadra favorita, e questo forse ci ha un po’ bloccato. Ma alla fine ce l’abbiamo fatta».
Se pensa a Lazio-Vicenza, qual è la prima cosa che le viene in mente?
«Una tensione incredibile. Lo stadio pieno già tre ore prima della partita. Quella gente che si aspettava una vittoria. Quella gara, e quella con il Campobasso, furono due spareggi che ci giocammo in apnea».
Il gol di Fiorini è stata una liberazione.
«Sono contento che quella rete l’abbia segnata lui. Un personaggio straordinario, unico. Un leader nato. È stato un punto di riferimento per tutti: per i giocatori di esperienza e per i giovani».
Mister, oggi a 86 anni segue ancora il calcio e la Lazio?
«Certo. Sono molto legato alla Lazio e soprattutto ai suoi tifosi. Per due anni mi hanno fatto sentire uno di loro e ancora oggi mi riempiono di affetto. Sarò sempre grato a tutti. Se fai bene a Roma, e riesci a non farti travolgere dalle pressioni e dalle polemiche vuol dire che sei un bravo tecnico. Io ho lavorato in piazze calde come Varese, Verona, Bari, ma non ho mai trovato le stesse pressioni che ho respirato nei miei due anni passati nella Capitale. Fortunatamente la mia esperienza è stata accompagnata dai risultati. E il pubblico è stato qualcosa di unico. Il calore che sanno regalarti i laziali è impressionante».
La Lazio a Torino si è lamentata per gli errori arbitrali e il Var?
«Questo è uno degli aspetti del calcio di oggi che mi piace meno. Arrivato a una certa età, sono un po’ stufo delle polemiche. Vorrei concentrarmi solo sul calcio giocato. Tanto certe cose ci sono sempre state e sempre ci saranno».
Le piace Baroni?
«Tanto. Lo conosco bene e tutto quello che sta ottenendo, se l’è guadagnato sul campo. È uno al quale non è stato mai regalato nulla, al contrario di altri. Si è meritato la panchina della Lazio e se la sta giocando bene. È un allenatore che ama giocare a calcio e produce un gioco offensivo. Mi piace la sua mentalità. Ha fatto tanta gavetta, al contrario di molti allenatori che, non so per quali meriti, una panchina la trovano sempre».
Ma aveva detto che non voleva fare polemiche...
«Ha ragione. Allora facciamo così, chiudiamo con un messaggio a tutti i laziali...».
Prego, siamo tutt’orecchi...
«Intanto grazie per tutto l’amore che mi avete sempre dato e per l’affetto che mi avete dimostrato. State vicini a Baroni e a questa squadra, perché possono farvi divertire».
Parola di Eugenio Fascetti.
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