Alì-Foreman, notte memorabile

Alì-Foreman, notte memorabile

30 ottobre 1974: si consuma uno dei più importanti incontri di boxe della storia. Articoli di giornale, editoriali, film, libri e canzoni hanno raccontato come niente sia stato più come prima

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Sarà trascorso sempre e soltanto un giorno solo, quando ciò che è stato continua a sorprenderci, a farci domandare come sia stato possibile.

Anche dopo cinquant'anni esatti, dopo aver avuto mezzo secolo per chiedere spiegazioni, un'alba incredula continua a farsi raccontare da una notte memorabile come venne squarciato il velo delle apparenze, prima che la pioggia torrenziale chiudesse il palcoscenico.

 

È una storia che finisce in Africa, ma comincia, come troppe volte in precedenza, laddove altri le sorti dell'Africa decidono. A cominciare dall'orario, che privilegia una tarda sera occidentale rispetto al cuore della notte nel Continente Nero.

 

 

 

Due statunitensi al centro della Storia

 

Nero, già: non lo si è allo stesso modo, non in quest'occasione perlomeno. Non contano i pigmenti della melanina, ma la percezione di un'appartenenza. Allora, un ragazzone texano di successo, George Foreman, arricchito e amante dei pop corn e del baseball in tv, anche se ha la pelle più scura dell'altro, sarà estraneo quanto un bianco colonialista, agli occhi di un popolo che vuole essere ascoltato, per entrare finalmente a far parte delle dinamiche della Storia. L'altro è Muhammad Ali, quello che ogni battaglia che combatte per sé ha il potere di farla passare come una crociata in nome e per conto di tutti i suoi fratelli. Ecco perché l’antagonista di turno, ancorché nero, sarà sempre uno Zio Tom, anche quando non merita di essere definito tale, perché Joe Frazier, per esempio, non meritava quel soprannome.

 

In mezzo c'è il titolo mondiale dei Pesi Massimi di pugilato, in palio: a metà degli Anni Settanta, il traguardo sportivo più importante del pianeta; più di un Oro olimpico, più della Coppa del Mondo di calcio.

 

È più appariscente il copricapo in pelle di leopardo del dittatore dello Zaire Mobutu o l'acconciatura di Don King, come una specie di grande colonna di riccioli edificata sopra il ghigno da usuraio? In mezzo, in attesa della risposta, ballano al ritmo della musica tribale tutti i milioni di dollari che Don King ha chiesto e che Mobutu ha trovato per comprare una notte di rispettabilità planetaria per il suo regime, lui che aveva fatto uccidere e arrestare Patrice Lumumba tredici anni prima, da colonnello, su mandato della CIA e degli imprenditori minerari del Belgio. Una pedina occidentale, a suo modo, nello scacchiere della Guerra Fredda, Mobutu.

Nel frattempo, ha fatto sapere ad Ali e a Foreman, in particolare a quest'ultimo che mal sopporta il soggiorno in Africa, che non sarebbe prudente lasciare il Paese, soprattutto dopo il rinvio dell'incontro dal 25 settembre al 30 ottobre 1974, a causa del taglio profondo sul sopracciglio di Foreman, che pesta così forte in allenamento che un suo sparring per proteggersi gli ha infilato un gomito nell'occhio.

 

Come arrivano all'incontro, il Campione del Mondo in carica, più giovane e strafavorito, e il suo sfidante, più celebre e conosciuto del Presidente degli Stati Uniti in tutto il pianeta? Per Foreman l'Africa è un posto come un altro e ha fatto anche in modo di farsi detestare appena sceso dall'aereo, perché si è presentato con il suo amato pastore tedesco: la razza di cane che agli zairesi ricorda le violenze commesse dalle guardie di Re Baldovino, quando il Paese era ancora Congo Belga. Ali invece gira tra la gente, si allena anche in mezzo alle bidonville, fa in modo di farsi percepire dagli africani come un loro alfiere. Il miglior propagandista di sé del Ventesimo Secolo porta a casa anche questo risultato, prima dell'altro.

 

Foreman è meglio allenato e più giovane di sette anni; Ali è sfavorito al punto tale che il suo entourage si riunisce a pregare perché esca vivo dall'incontro. Angelo Dundee, Bundini, il Dottor Pacheco e tutti i componenti di brigata che si è portato appresso. C'è pure un addetto agli assaggi del suo sudore.

 

I cinquantamila posti dello Stadio “20 maggio” sono tutti occupati, oltre che fisicamente anche da un grido che il pubblico scandisce come fosse il crescendo di un rituale: “Bomaye, Ali, Bomaye”. Uccidilo, Ali, letteralmente, secondo l’idioma Lingala, una delle tante lingue parlate dalle etnie congolesi. Uccidi il razzismo e l'indifferenza, l'ingiustizia secolare e le discriminazioni.

 

 

L’incontro e il suo mito

 

Chissà se a qualcuno dei tanti giornalisti inviati dalle varie e prestigiose testate americane, europee, asiatiche viene in mente che nei sotterranei dello stadio potrebbero esserci centinaia di oppositori del regime di Mobutu sottoposti a torture ed estratti a sorte per cruente esecuzioni, come si vocifera da più parti. Chissà se è del tutto vero; di certo è verosimile.

Vestaglia bianca con intarsi pregiati, lo sfidante aspetta Foreman, in vestaglia rossa, che arriva correndo verso il quadrato e poi si sveste, monumentale nella muscolatura tirata a lucido.

Ali ha il ghigno di chi vuole fare e farsi giustizia, non solo contro un avversario ma contro tutti quelli che hanno screditato i suoi messaggi. Parla, a raffica, con provocazioni che scavalcano il paradenti e sbattono sui pettorali neoclassici di Foreman. Quest’ultimo, coi folti baffi e lo sguardo fisso e imperturbabile sul volto di Ali, somiglia a un grosso felino che ha già individuato la preda, in mezzo all’erba folta della savana.

Dalla prima campana in poi, è come se la sceneggiatura dell'incontro l'avesse scritta Pirandello: nulla alla fine sarà com'era sembrato; solo la potenza dei colpi di Foreman vale per quella che è, solo che nessuno può immaginare che il texano scoprirà di averli dati a sé stesso. Dopo un pugno di secondi dall’inizio del secondo round, Ali fa la cosa apparentemente più autolesionista, contro uno come George: se ne va ad abitare nel ghetto del ring, si rintana sulle corde e si fa cercare e trovare dall’avversario; si appoggia e molleggia, con le braccia verticali a schermare il più possibile il viso con i guantoni, i fianchi con i gomiti. Comincia l’azione pesante di Foreman e sembra che il grosso gatto abbia immobilizzato il suo topo ballerino. Piovono pugni sui fianchi e sul costato, sulle spalle di Ali, abbracciato dalle corde. Gli intermezzi del suo jab pungono di quando in quando la faccia di Foreman, come fastidiosi mosconi della notte africana che sta cedendo il posto all’alba più grande che ci sia.

L'azione di Foreman si protrae al punto tale che tutto il mondo si sta chiedendo come faccia Ali a resistere, in quel modo, a quell'azione demolitrice. Nessuno ha tempo di domandarsi quanto possano durare le munizioni di George.

Al termine del quinto round, i pugni di Foreman continuano a essere pesanti, ma appesantite ora sono le braccia, più corti i passi con cui si avvicina ad Ali, il quale in un rantolo gli sussurra: - Mia madre me le dava più forti…-.

Col sole che sta abbassando il sipario della notte, si distinguono ora i profili reali dei due pugili: nulla è stato, fin dall’inizio, ciò che è sembrato. Quelle corde morbide sono le sabbie mobili dove i piedi di Foreman, sempre meno mobili, stanno sprofondando: dove vanno a finire i pugni che ora si perdono a metà del tragitto, come treni troppo carichi che deragliano? Chi ora può dire con certezza quale sia la vittima, tra i due, quale il carnefice? Dalla seconda ripresa in poi, Foreman ha avuto da Ali il permesso di fargli tutto quello che avrebbe desiderato alla vigilia. Ora sta scoprendo che non è ancora stato abbastanza e che lui sta correndo il rischio che tutti quei pugni non siano serviti a nulla, perché dei due, sembra essere lui, ora, a non poterne più.

 

“Rope a dope”: prendi al laccio l’imbecille

 

Foreman impiega tutta la lucidità residua per prendere atto del paradosso in cui si è infilato da solo, diventandone vittima a poco a poco: la sua Wermacht di pugni si è fatta strada attraversando la steppa sconfinata del match; Ali è ora una Stalingrado nera e irridente che lo ha fatto avanzare fino al cuore dell’incontro, aspettando la neve dell’acido lattico. Non ci sono più provviste di energia, solo l’eco di quel “Bomaye” che lo rende solo in un mondo dove nemmeno il suo colore lo rende fratello di qualcuno.

Sul finire dell’ottava ripresa, George ha ruotato il busto di centottanta gradi, per vibrare il gancio; nel tornare in assetto, abbassa la guardia aprendosi il sipario sulla faccia ammaccata: sinistro, destro di Ali, potentissimo.

Si aspetta di ricevere un terzo colpo, a quel punto, George Foreman, Campione del mondo in carica. Se lo aspetta anche il resto del mondo, in quel frangente. Invece Ali gli ha guardato i piedi che stavano già perdendo l’appoggio.

Sempre ruotando le grosse spalle, quasi cercando un appiglio invisibile, come un povero cristo sbronzo che non riesca più a camminare all’uscita da un bar, comincia a precipitare, George Foreman.

Nel vederlo piroettare, si ha come la sensazione di assistere al distaccamento di un grosso lastrone di roccia che venga giù da un pendio, con un uomo lì sotto che si preoccupa soltanto di non essere nella sua traiettoria. Per questo, Ali lo vede cadere e non infierisce: anche se dovesse rialzarsi, come in realtà accade quando l’arbitro è già arrivato al nove, nel conteggio, George è finito. Lo sa lui per primo. Lo sa anche il temporale, che si prende la scena subito dopo, nel fragore dei tuoni che interrompono ogni comunicazione satellitare e isolano Kinshasa dal resto del mondo. “Bomaye, Ali, bomaye” continua a scandire la folla sotto il diluvio.

Il cronista Pete Bonventre, di “Newsweek”, riuscirà tra mille peripezie a raggiungere la tenuta di N’Sele, qualche ora dopo l’incontro. Ali è seduto sugli scalini del villino, circondato da alcuni bambini africani ai quali sta mostrando qualche piccolo gioco di prestigio. Non si capisce, tra i bimbi entusiasti e il nuovo Campione del mondo, chi si stia divertendo di più.

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