Juliano e Pirlo, registi nella storia

Juliano e Pirlo, registi nella storia

Due ere diverse, due modi di intendere il ruolo, due talenti che hanno fatto grandi Napoli e Milan 

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Fino all’età di dodici anni, erano altri tempi, Juliano era il commesso di fiducia della salumeria di papà. A Napoli, ovviamente. Anche all’epoca non sbagliava una misura e forse è lì che ha imparato a soppesare al milligrammo il mondo che aveva intorno. Come sapeva fare in campo.

Si diceva, ma si dice ancora un po’ troppo spesso, che i napoletani sono un popolo di “passione e fantasia” mentre Juliano, a detta di un compagno di squadra che forse avrete sentito nominare, Dino Zoff, sembrava più un “furlano” come lui. Silenzioso, rigoroso, tutto praticità e pochi fronzoli. Ma al diretto interessato non piaceva quell’etichetta.

In campo, come tutti quelli che sanno usare innanzitutto la testa, più che i muscoli - cercando un paragone con il calcio odierno, direi Modric - Juliano detto “Totonno” correva in lungo in largo con il pensiero. E, chissà come, arrivava sempre per primo.

“Eleganza di tocco, polmoni di acciaio e visione chiara del gioco”, lo definisce così Carlo Di Nanni sul “Corriere” del 4 novembre 1966, in uno dei primi profili dell’allora ventiquattrenne, ma già capitano, agli inizi della seconda stagione da titolare in A. Aveva appena esordito dal primo minuto in Nazionale in un’amichevole contro l’Urss, vinta 1-0. Primo napoletano della storia.

Lo lanciò Bruno Pesaola e se all’inizio il suo idolo era Boniperti, Juliano capì presto che uno con le sue caratteristiche avrebbe dovuto ispirarsi a un altro campionissimo, l’interista Luisito Suarez, che partendo qualche metro indietro rispetto allo juventino era in grado allo stesso tempo di dettare i tempi di gioco e interrompere l’azione avversaria grazie al suo senso dell’anticipo superlativo. Proprio come aveva imparato a fare Juliano al Napoli, vincendo due Coppe Italia, una Coppa delle Alpi e accarezzando più volte il sogno scudetto. Da dirigente fu anche tra i maggiori “responsabili” dell’arrivo di Maradona, ma quella è un’altra storia.

 

Juliano: Mister Passaggio

 

Sapeva correre, ma con giudizio. Era lento, ma mai pigro. Ma soprattutto ciò che emerge dai giudizi di grandi giocatori e allenatori che lo hanno visto dal vivo è la sua qualità più notevole: Antonio Juliano non sbagliava mai un passaggio. Lo diceva Omar Sivori, suo compagno di squadra, che poteva lanciarsi sereno nei suoi svolazzi sapendo di avere le spalle coperte e di ricevere sempre il pallone nel punto giusto. Lo diceva Rinus Michels, tecnico del formidabile Ajax anni Settanta, che lo avrebbe visto bene nella sua squadra, tra quelle che hanno rimodellato il gioco del calcio. Lo diceva Pesaola che non se ne privava mai, rammaricandosi al termine della stagione 1965-66, la prima in A del suo “Totonno”, perché a fine maggio era incappato nel primo errore di misura.

Oggi registi come Juliano sono più rari, i tempi di gioco più rapidi richiedono spesso i cosiddetti “mediani di gamba” più propensi a sfiancarsi in corse a perdifiato su e giù per il campo piuttosto che far andare il pensiero e l’immaginazione. Uno come lui lo aveva il Milan agli inizi del Duemila - e poi la Juve, e tanti tifosi rossoneri ancora se ne rammaricano - ed era un piccoletto bresciano nato trequartista e portato una ventina di metri indietro da Carletto Mazzone: Andrea Pirlo.

 

 

Visionario Pirlo

 

Campione del mondo 2006, ce lo ricordiamo tutti, Pirlo come Juliano sapeva vedere il gioco in anticipo, disegnando spazi e intuendo corridoi. Di Juliano si ricorda una palla intercettata con una miracolosa scivolata in anticipo su un passaggio di Mühren e un lancio a occhi chiusi verso Montefusco che favorì l’1-0 del Napoli proprio contro l’Ajax di Michels. Di Pirlo non si può dimenticare la geniale intuizione sul gol di Grosso nella semifinale di Dortmund del 4 luglio 2006, quando, con una difesa schierata davanti a sé, voltato di trequarti, aveva individuato un pertugio con un no-look in cui si era infilato il terzino, diventato idolo grazie a quella rete mitica.

Agli inizi Pirlo sembrava solo l’ennesimo trequartista troppo lento che non avrebbe potuto mai adeguarsi al 4-4-2, il modulo prediletto negli anni Novanta post-rivoluzione sacchiana. Nelle giovanili del Brescia era Baronio il metronomo arretrato, lo stesso che oggi gli fa da vice nelle esperienze da allenatore, mentre Pirlo era un fantasista. E faticava.

Al Brescia c’era Baggio dietro l’unica punta, così Mazzone aveva capito che uno con la sua visione di gioco avrebbe potuto incidere meglio in regia, con una porzione di campo maggiore davanti a sé da coprire con lanci al millimetro. Passato al Milan di Ancelotti, Pirlo aveva trascorso una prima stagione interlocutoria, schierato addirittura da esterno in alcune gare, poi spostato in cabina di comando era arrivata la svolta. Per lui come per i rossoneri.

I grandi registi, in fondo, sono (erano?) così, lavorano per la squadra e quando fanno bene il loro lavoro i tempi di gioco sono scanditi al secondo. Anzi, al milligrammo, come nella salumeria di papà Juliano.

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