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Alla stregua di Caravaggio, sui campi di gioco il Mancio alternava giocate d’alta scuola a momenti di irrequietezza. La vittoria di Euro 2020 il punto più alto della sua carriera da allenatore. Il 27 novembre 2024 compie 60 anni
L’ultima esperienza in Arabia Saudita di Roberto Mancini è stata emblematica di alcuni tratti della personalità e delle caratteristiche che hanno contrassegnato la sua carriera. A partire dal modo in cui è iniziata: improvviso, inaspettato, quasi violento nell’accelerazione che lo ha portato a troncare il rapporto con la FIGC alla vigilia delle partite decisive per la qualificazione a Euro 2024. In quella cesura sono emersi aspetti del carattere affiorati anche in altri momenti importanti della sua vita professionale: la capacità di tagliare nettamente i cordoni ombelicali emotivi (appena entrato nell’adolescenza, Mancini aveva lasciato la sua famiglia trasferendosi a Bologna per giocarsi al meglio le chances che il suo talento non avrebbe avuto rimanendo a Jesi); l’assoluta fiducia nei suoi mezzi, talvolta confinante con la presunzione (difficile, col materiale umano a disposizione, pensare di poter ottenere grandi risultati con la selezione dell’Arabia Saudita). Infine, l’attentissima valutazione delle questioni economiche. Tutti elementi che avevano tipizzato la carriera del Mancini calciatore e che, in qualche modo, sembravano essersi mitigati, nei loro tratti più estremi, con l’esperienza vissuta alla guida della Nazionale azzurra.
Altro fattore che ha accompagnato i momenti importanti della carriera del Mancio è stata la precocità, evidente conseguenza dell’enorme talento di cui sapeva di essere dotato e della determinazione nel voler perseguire l’obiettivo di diventare un calciatore professionista. A sedici anni arrivò l’esordio nella primavera del Bologna, a diciassette (non ancora compiuti) quello in serie A, a diciannove in nazionale maggiore. Anche da allenatore ha bruciato le tappe, cominciando ad allenare la Fiorentina senza nemmeno avere il patentino.
Nella prima stagione a Bologna non salta nemmeno una partita e firma nove gol, attirando le attenzioni di mezza serie A. A prelevarlo dai rossoblù sarà il presidente della Sampdoria Paolo Mantovani, che già nel 1982 stava progettando la squadra che nove anni più tardi avrebbe vinto uno scudetto storico. Di quella squadra, Mancini sarebbe stato un protagonista assoluto, insieme al “gemello” Vialli, che lo raggiungerà a Genova nel 1984, facendo nascere una delle coppie di attaccanti più iconiche del calcio italiano degli anni Ottanta. Già, perché i due avevano un’intesa naturale che andava oltre il rettangolo di gioco, nel quale le doti tecniche e la voglia di affermarsi univano i loro intenti quanto il desiderio di divertirsi fuori dal campo. Scherzi, risate, amicizia e glamour in abiti borghesi; orientamento alla vittoria assecondando l’estetica negli stadi italiani ed europei. Mancini è la mente, Vialli il braccio: il primo pennella, suggerisce e intuisce; il secondo sgomita in area, apre varchi, regala potenza.
La Sampdoria costruisce il suo ingresso nel calcio che conta soprattutto grazie alle loro invenzioni. Mancini, per certi versi, ricorda Caravaggio nella genialità assoluta delle sue giocate, che con improvvisazione istintiva regalano sprazzi di luce che cambiano la prospettiva di una partita. Sono spesso giocate da fermo: lanci in profondità che tagliano lo spazio, colpi di tacco che, nella velocità dell’esecuzione, frantumano gli accorgimenti difensivi avversari; calci di punizione che lasciano i portieri fermi a favore di telecamera mentre il pallone segue parabole arcuate che sorvolano le barriere per andare a incastonarsi all’incrocio dei pali.
Mancini è delizia, ma anche croce: quando cade nelle giornate in cui l’estro non fluisce e i risultati non arrivano, la sua rabbia si indirizza nelle proteste verso gli arbitri o nelle polemiche con gli avversari. Un’inquietudine caratteriale che, insieme alle grandi doti tecniche, costituiva un’ulteriore similitudine con Michelangelo Merisi, anch’egli noto, oltre che per le sue opere eccelse, per l’irrequietezza d’animo. In questo senso rimane emblematica la corsa verso la tribuna stampa dopo il gol realizzato contro la Germania Ovest nella partita d’esordio degli Europei del 1988: una corsa piena di parole contro i giornalisti che lo avevano criticato fino a quel momento, che i compagni andarono ad occultare non appena riuscirono a braccarlo. Gol, rabbia, inquietudine. Distanza dall’ordinario.
È proprio nel rapporto controverso con la Nazionale che la vita calcistica di Mancini trova una rappresentazione a tutto tondo. Mentre la carriera con i club, anche a livello di trofei, gli garantisce più successi (gli scudetti, due, e le Coppe, undici, con Sampdoria e Lazio) che amarezze (su tutte la finale di Coppa dei Campioni del 1992, perduta ai supplementari contro il Barcellona a Wembley), la storia con la Nazionale vive capitoli diversi che si intrecciano in un arco temporale che va dal 1982 al 2023. Pagine strettamente connesse, fatte di illusioni e delusioni, amarezze e rivincite, campo e panchina. L’esordio con l’Under 21 è datato 6 ottobre 1982, un’amichevole fuori casa contro i pari età austriaci. Inizia una parentesi felice, quella che vede Mancini far parte di quella nidiata di ragazzi che daranno il cambio agli eroi di Spagna dopo il mondiale del 1986 e che sfioreranno il titolo europeo di categoria proprio quell’anno. Il prolungamento dell’esperienza in Nazionale maggiore è una naturale conseguenza che, però, non prosegue con la stessa fortuna che tocca a molti dei suoi compagni dell’Under 21. La difficoltà di incasellarne il talento in un quadro tattico equilibrato e l’incostanza di rendimento, spesso inferiore rispetto agli standard proposti con la Samp, lo fanno arretrare nelle scelte di Azeglio Vicini, che pure ne aveva guidato la crescita con gli azzurrini. La grande occasione di Italia 90 per lui si risolve in una doppia delusione: quella di squadra e quella individuale, visto che in quel mondiale Mancini non gioca nemmeno un minuto, superato nelle gerarchie dallo scintillante stato di forma di Roberto Baggio. Le cose non andranno meglio nello scacchiere di Arrigo Sacchi, che gli concede l’ultima apparizione part time in un’amichevole contro la Germania pochi mesi prima di Usa 94. Il suo consuntivo si ferma a 36 presenze e 4 gol: striminzito per un giocatore di classe purissima come lui.
L’azzurro rimane una ferita mai pienamente cicatrizzata che, nella primavera del 2018, lo spinge ad accettare con vero entusiasmo l’incarico di CT dell’Italia. Al momento della presentazione, le sue non sono parole di circostanza: “Il mio rapporto con la Nazionale è durato tantissimo: sono stato l'unico ad avere avuto Bearzot, Vicini e Sacchi. Non sono stato fortunatissimo, ma ho sempre amato la maglia azzurra. Vorrei essere un CT perbene e che riesca a riportare l'Italia dove merita. Non vinciamo l'Europeo da tantissimi anni: a parte la Nations League, Euro 2020 sarà l'appuntamento più vicino e più importante. Possiamo farcela". Mancini racconta la sua Italia in una dichiarazione che include tutto: l’esperienza passata legata al rammarico di non aver dato né avuto quello che desiderava e il futuro nel quale vorrebbe realizzare un sogno. Una visione che diventa realtà l’11 luglio 2021, quando la sua nazionale, dopo 53 anni, torna ad essere Campione d’Europa. Sulla panchina di Wembley, lo stadio col quale regola il conto di quella Coppa dei Campioni dolorosamente sfumata, del Mancini di un tempo si sono perse le tracce. Il ragazzo a volte bizzoso non c’è più: ha lasciato il posto a un uomo maturo, impeccabile nel completo che rende omaggio al suo innato senso per l’eleganza. Un leader che crede nel lavoro fatto con un gruppo di giocatori che, come lui, insegue un traguardo che, tre anni prima, sembrava impossibile solo da immaginare. Un allenatore che non perde la calma nemmeno nei momenti di maggior pressione, capace di trasmettere serenità e fiducia quando i calciatori ne hanno bisogno per non cedere al nervosismo e alla stanchezza. L’abbraccio finale con Vialli, che suggella una vittoria storica, è amicizia e condivisione, ricordo di gioventù e affetto, felicità di stare insieme e paura di perdersi. I successi da allenatore con i club, la macchia dell’eliminazione dai mondiali 2022, la rottura con la Federazione nel 2023 e la turbolenta gestione dell’Arabia Saudita, davanti a quell’immagine, sbiadiscono nell’irrilevanza. Arrivato a sessant’anni, Mancini ha una certezza: è stato, e resterà, un maestro della luce. Come Caravaggio.
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