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Francesco, detto “Kawasaki”, esordì il 25 marzo del 1973 contro i rossoneri: per Anzalone fu l’unico della Roma a salvarsi
Nei numerosi precedenti che hanno creato la storia di Milan-Roma, si nasconde una piccola perla che fa piacere ricordare: l’esordio in serie A di Francesco Rocca, conosciuto in carriera col soprannome di “Kawasaki”, conquistato sul campo per le doti di velocità che esprimeva. Era il 25 marzo 1973 quando i giallorossi andarono a far visita al Milan di Nereo Rocco, in piena corsa per la vittoria del campionato. Helenio Herrera lo schierò tra i titolari con una maglia anomala per lui: la numero sette. La Roma perse 3-1 senza mai impensierire Rivera e compagni. Rocca, però, oltre alla soddisfazione dell’esordio, raccolse i positivi apprezzamenti del presidente Anzalone, che a fine partita disse: «La gara non mi è piaciuta. Solo il giovane Rocca se l’è cavata». Per lui il Mago stravedeva, tanto da arrivare a parlarne come del giocatore più rivoluzionario che fosse nato in Italia. Dopo il match col Milan scende nuovamente in campo nella terz’ultima e penultima giornata del campionato 1972-73. Ma è l’anno successivo quello della svolta: la Roma parte male e dopo sole sei giornate esonera Manlio Scopigno. Sulla panchina della squadra capitolina va a sedersi Nils Liedholm, che prende Rocca per mano trasformandolo in un giocatore vero. Due i punti su cui lavorare: il potenziamento muscolare e la tecnica. Negli allenamenti settimanali, Rocca conosce il lavoro con i pesi, i palleggi senza fine, i cross e i tiri in porta a ripetizione. Il Barone gli assegna definitivamente anche il ruolo di terzino di spinta, a lui che fino a quel momento pensava di essere un mediano. È veloce, macina le fasce, poco importa se destra o sinistra: è un destro naturale che si trova meglio sulla corsia mancina. Rocca è una delle rivelazioni della stagione e diventa uno dei punti fermi dell’Italia tanto da collezionare, in due anni, diciotto presenze con gli azzurri. L’ultima, quella del 16 ottobre 1976 in Lussemburgo, la gioca in condizioni precarie: in settimana non si è potuto allenare per una brutta botta presa nell’ultima giornata di campionato disputata dalla Roma contro il Cesena. I medici, però, dicono che non c’è nulla di grave e, stringendo i denti, non ci sono controindicazioni a giocare. Rocca è generoso e non si fa pregare. Il dolore, però, c’è e ne condiziona in negativo una prestazione molto criticata. Tornato a Roma, riprende ad allenarsi e il ginocchio cede: è la prima stazione di un calvario che dura cinque anni.
Sono cinque gli interventi a cui Rocca si sottopone nell’inutile tentativo di poter tornare in piena efficienza. Francesco alza definitivamente bandiera bianca in un’amichevole precampionato della stagione 1981-82 che la sua Roma gioca contro l’International di Porto Alegre, la squadra da cui i giallorossi hanno acquistato Falcao. È costretto a fermare le sue corse e a levare le braccia al cielo: è una resa e un saluto a un pubblico che non aveva mai smesso di cullare quella speranza che era innanzitutto sua. Dopo i Mondiali d’Argentina, nei quali sarebbe stato molto probabilmente un titolare vista la stima che Bearzot nutriva nei suoi confronti, perde i più grandi successi delle squadre a cui ha legato la sua breve esperienza sul campo: il Mondiale di Spagna e lo storico scudetto del 1983.
Dopo il ritiro, collabora con la Roma prima di approdare in Federcalcio, dove guida prima la Nazionale Olimpica nel 1988 e, successivamente, le varie rappresentative Under. Non è un caso: Rocca, infatti, è il tecnico giusto per forgiare le abitudini di giovani da preparare al grande salto nel mondo dei professionisti. Amante del rigore che impone la disciplina, appassionato dell’allenamento, ai suoi ragazzi ha sempre richiesto abnegazione e sacrificio quali strumenti indispensabili per riuscire a trovare una via nel difficile ambiente del calcio. Una panchina coi “grandi”, probabilmente, non si abbinava al meglio alla sua trasparenza, alle sue richieste intransigenti, alla sua passione rimasta intatta dopo tanti anni. Un uomo pulito, che ha cercato di essere un modello ideale per ragazzi che desideravano una carriera più fortunata della sua. Nessun compromesso, al punto da auspicare squadre di calcio “senza dirigenti con la pancia”. Affermazione non certo figlia di una qualsivoglia forma di discriminazione bensì dell’imprescindibile necessità di essere d’esempio: una vocazione, un’esigenza di nitidezza che si sono tradotte nell’esercizio di ruoli sempre lontani da quei riflettori che aumentano la luce per nascondere le ombre che Francesco Rocca non ha mai avuto.
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