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Ultimo saluto al portierone di Roma e Milan (ma anche Udinese e Brescia): il soprannome dopo una notte magica a Old Trafford, con Rocco vinse tutto, con la Roma fece innamorare un popolo
La posizione, innanzitutto: in qualche punto del suo metro e novantuno di statura era nascosto quel radar naturale che lo portava a sistemarsi sempre in modo ottimale all'interno dello specchio di porta. Fabio Cudicini ha chiuso il cerchio dell'esistenza nel segno del vento, salutando la vita sotto il soffio del ponentino che ogni tanto accarezza la Capitale, dopo averla ricevuta tra le folate gelide della bora che spazza le strade di Trieste, ottantanove anni prima.
In mezzo, una Milano che addensava foschie e vittorie.
Un cognome che evoca leggende da custodire tra i guanti, anche se in tante immagini di repertorio lo si vede a mani nude.
Tra i portieri della sua epoca, passava per essere uno che spolverava la cima ai grattacieli, in una generazione che per la quale si era giudicati alti oltre il metro e settantacinque.
La maglia dell'Udinese a vent'anni non ancora compiuti, quindi l'arrivo a Roma, sponda giallorossa, nell'estate del 1958. Due anni da vice di Panetti, poi la titolarità, a protezione per sei stagioni di una Roma che si barcamenava tra ambizioni, nomi prestigiosi come quelli di Ghiggia e Lojacono e altrettante distrazioni miste al mancato raggiungimento di una compiuta grandezza. Eppure, con Cudicini tra i pali arrivarono la Coppa delle Fiere e la Coppa Italia, tra il '61 e il '64.
Nell'estate del '66 i postumi di un infortunio all'anca convinsero Oronzo Pugliese che Cudicini non fosse più utile alla causa, per di più con quella statura che avrebbe allungato, nelle idee del Mago di Turi, i tempi di recupero.
Finì al Brescia, in Serie A, per poi accasarsi al Milan nel 1967. Trentadue anni, per l'epoca il crepuscolo di ogni carriera. Per Fabio Cudicini l'inizio della leggenda: 127 partite, sino alla chiusura nel 1972, con la seconda Coppa Italia, vinta in finale a Roma, contro il Napoli; una Coppa delle Coppe all’esordio e la seconda Coppa dei Campioni rossonera, nel 1969; a chiudere, la Coppa Intercontinentale venuta fuori dalla caccia all'uomo della Bombonera, contro l'Estudiantes.
Ebbe in sorte più di un soprannome, a metà strada tra la statura e la divisa scura degli anni milanisti: a Roma era Pennellone, così come Nereo Rocco a Milano prese a chiamarlo "El Longo", mentre "Stralongo" era diventato per Gianni Brera, secondo il culto del Maestro per i soprannomi.
"Black spider", Ragno Nero come Jascin, lo chiamarono a Manchester, dopo il bombardamento dello United verso la sua porta, sulla strada della finale contro l'Ajax. Divenne il soprannome definitivo di un portiere memorabile, che di scuro ammantava anche le gambe, con una calzamaglia futuribile, per l'epoca: «Ero un tipo freddoloso, d’inverno aiutava. C’era la sottomaglia ufficiale, le gambe però pativano il freddo».
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