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Il bomber di Crocefieschi si racconta: "Darei tutto per rigiocare la finale contro il Liverpool"
Se dici Roma-Genoa, sopra l’ombra convenzionale del Cupolone e della Lanterna si staglia quella dei baffi, un tempo ancora più folti, di Roberto Pruzzo: dal ‘73 al ’78 con la maglia del Grifone, poi dieci stagioni con la divisa giallorossa: regalo d’addio di Gaetano Anzalone, bomber per antonomasia dell’era Viola. Le sue parole trasudano gratitudine per entrambi i presidenti che ha avuto nella Capitale.
«Anzalone era una grande persona, un uomo davvero amabile, con un grande amore per la Roma, alla quale ha dedicato il massimo dei suoi sacrifici. Mi ci volle pochissimo per nutrire una grande stima e ancora mi ricordo le sue lacrime al momento in cui ci disse che avrebbe ceduto la Roma. Dino Viola, per come l’ho conosciuto e poi vissuto per tanti anni, dietro l’apparenza di uomo arcigno e un po’ enigmatico, era in realtà estremamente diretto, franco, a tratti molto schietto. Proprio questa dote è stata quella che ho apprezzato principalmente: mi ci trovavo a meraviglia perché il vero Dino Viola era facile da capire, come persona; come dirigente, è stato un genio e forse oggi si capisce meglio di allora. Lungimirante, sognatore ma con i piedi per terra, in grado di sfidare il potere, o Palazzo che dir si voglia, in virtù di una personalità fortissima e di una managerialità che sembrava provenire dal futuro».
Arriva a Roma nella stagione 1978-79; che ricordo ha dell’addio al Grifone e dell’approdo in una metropoli?
«Al Genoa l’ultimo anno fu drammatico e culminò con la retrocessione, avevo fatto il mio tempo. Anzi, con il senno di poi dico che forse sarei dovuto andar via con un anno d’anticipo. L’impatto con Roma fu dolce, morbido, per merito della gente e della positività che mi comunicava. Per le aspettative che la tifoseria aveva, mi fecero sentire subito uno di loro. In realtà, poi, fu molto problematica anche la prima stagione in giallorosso, perché ci fu un momento in cui seriamente sfiorammo la retrocessione. Alla fine di quel campionato, anzi, andai da Viola quasi chiedendogli di essere ceduto, invece il presidente mi convinse che da quel momento in poi sarebbe iniziata la risalita e che avremmo fatto grandi cose. Aveva ragione lui».
Arrivò in una squadra che aveva sempre avuto grandi centravanti, da Pierino Prati andando a ritroso: avvertiva la pressione del confronto storico?
«Zero. Nulla. Ero sicuro di me, dei miei mezzi. In più, sentivo la fiducia di una tifoseria dalla quale ero stato subito adottato».
Memorabile, in quella stagione travagliata, resta il suo gol all’Atalanta, quello del 2-2, con uno dei più grandi boati che l’Olimpico ricordi.
«Era il boato della liberazione dall’incubo. Sai che, se ripenso alla mia intera parabola in giallorosso, quello resta il mio gol più importante? Da quel momento in poi è cominciato tutto, con le Coppe Italia e tutto il resto».
Di Genova cosa le mancò, quando se ne andò e cosa le manca ancora oggi?
«Domanda particolare, che necessita di una risposta più particolare ancora: un vero genovese Genova se la porta dentro ovunque vada; siamo sempre stati un popolo di giramondo, del resto; Genova “La superba” ti ammanta di malinconia e proprio per quello ti crea l’antidoto alla malinconia stessa il giorno che te ne vai».
Ha detto in più di un’occasione che la tensione del derby a Roma non la spaventava perché con quello di Genova aveva sviluppato gli anticorpi.
«Assolutamente. Il derby a Genova era “‘na rogna”, una bella rottura di… ci siamo capiti. Si vive gomito a gomito tra due tifoserie dal Dna ben differente, almeno all’epoca era ancora così: i sampdoriani sono i fighetti, quelli della parte alta della città, in tutti i sensi; il genoano viene dai carrugi, dai vicoli del porto, abita in mezzo ai camalli, come certi personaggi di De André che, non a caso, era un genoano di ferro. Io cullo sempre il ricordo del mio gol contro la Sampdoria, il 13 marzo del 1977, con la maglia del Genoa: in quel giorno di grande soddisfazione per noi rossoblù, grazie a quel risultato di 1-2 spingemmo la Samp verso la retrocessione… è anche una foto indelebile, sai? Quel mio colpo di testa è stato esposto, magari da qualche parte c’è ancora, in tanti bar e locande tipici dei carrugi, nel cuore della Genova più verace è autentica, quella di “Via del campo”».
Rileggendo la sua carriera da romanista, se le fosse offerta la possibilità di rigiocarne una sola tra Roma-Liverpool e Roma-Lecce quale sceglierebbe?
«Roma-Liverpool, senza pensarci un attimo. Col Lecce accadde qualcosa di inspiegabile, che ancora oggi nessuno è riuscito a capire, una specie di cortocircuito. Contro il Liverpool fummo condannati dagli episodi, dalle assenze che ci privarono di molti rigoristi, me compreso; inoltre c’era in ballo la Coppa dei Campioni, l’approdo a una grandezza definitiva. Per questo vorrei rigiocarla, considerato che avevamo anche trovato il vantaggio nei rigori con la botta di Ago, il Capitano. Scrivilo con la maiuscola, per favore».
Quante volte ha ripensato a lui?
«Tante, sempre. Ultimamente, anzi, ci penso di più. Un grande amico, uno di quelli che anche se ci sentivamo raramente, sapevo sempre che c’era, che ci sarebbe stato. Mi sono spesso chiesto cosa avrei, cosa avremmo, anzi, potuto fare in più tutti noi, amici ed ex compagni. Si teneva tutto dentro; era un uomo ancora più grande di quanto già appariva, dalla moralità specchiata, dal carisma naturale. Trasudava autorevolezza, perché gli bastava mezza parola per darci coraggio. Proprio per questo, io il suo gesto non l’ho mai giudicato».
Venendo al presente, che momento attraversano Genoa e Roma?
«A Genova Vieira ha capito il lavoro che c’è da fare, anche se io non avrei mai mandato via Gilardino, uno che aveva già dimostrato di saper guidare un gruppo anche attraverso le difficoltà. La Roma deve fare più punti possibile in campionato ma al tempo stesso onorare al meglio le due coppe».
Da centravanti a centravanti, come le sembra l’inserimento di Dovbyk nel campionato italiano?
«Il rigore di Bologna può essere importante psicologicamente, ha avuto la freddezza di aspettare il movimento del portiere. Fino a quel momento non aveva quasi mai concluso verso la porta, però, come a Milano e nel derby, l’ho visto “dentro” le partite in fase di appoggio e palloni lavorati a beneficio dei compagni».
In conclusione, cosa hanno in comune Roma e Genova?
«La gente, che non ti molla mai».
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