Porto-Roma: Mourinho e gli altri ex allenatori

Porto-Roma: Mourinho e gli altri ex allenatori

José ha fatto la storia dei due club. Anche Delneri e Fonseca sono stati sulle due panchine

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Porto-Roma è un evento che profuma d’Europa da più di quarant’anni: era il 1981 quando le squadre si incontrarono la prima volta negli ottavi di finale di una competizione, la Coppa delle Coppe, che oggi non c’è più. Altri tempi, altri protagonisti. Gli incroci più recenti sono arrivati nell’ultimo decennio, dopo che le vicende delle due compagini hanno avuto modo di sovrapporsi anche per via degli allenatori che, avendole guidate dalla panchina, si sono fregiati del titolo di doppi ex. A cominciare da colui che, per carisma e trofei vinti, ha lasciato il segno nella storia di entrambe le squadre: José Mourinho.

 

È nata una stella

 

Lo Special One cominciò a diventare tale proprio allenando i lusitani. All’epoca – si era nel gennaio 2002 – era impossibile immaginare l’impatto che avrebbe avuto il suo arrivo sulla panchina dei Dragões. Alla prova dei fatti dimostrò immediatamente grandi doti di leadership, trasferendo al Porto una mentalità vincente e un acume tattico che, in due anni e mezzo, si tradussero in una serie stupefacente di successi: due campionati, una Coppa e una Supercoppa del Portogallo, una Coppa Uefa e una Champions League, competizione che il Porto aveva ottenuto in passato solo nel 1987 e che, dopo il 2004, non ha più conquistato. I suoi stilemi tattici furono subito evidenti: fase difensiva estremamente solida, transizioni offensive veloci e una grande capacità di adattamento alle caratteristiche degli avversari si rivelarono gli elementi distintivi del suo calcio, non ancorato a un singolo modulo tattico.

 

Dal Chievo con furore

 

Un’impostazione diametralmente opposta a quella di Luigi Delneri, il tecnico italiano che venne chiamato a sostituirlo quando Mourinho venne ingaggiato dal Chelsea. Reduce da quattro esaltanti stagioni con il Chievo, che dapprima portò in serie A e, successivamente, a un quinto posto che significò l’entrata in Coppa Uefa, il tecnico di Aquileia condensò la sua esperienza sulle panchine di Porto e Roma nel giro di pochissimi mesi. Davvero fugace fu la sua permanenza in Portogallo, annegata in poche settimane nelle quali si trovò tutti contro: dai giocatori, rimasti legati al modo di concepire il calcio di Mourinho, ai dirigenti, che volevano valorizzare giovani come Diego e Carlos Alberto, che Delneri considerava poco adatti a implementare il suo 4-4-2, fatto di gioco aperto sulle fasce di inclinazione prettamente offensiva. Una relazione di breve durata per la quale mancavano i presupposti: non era difficile immaginare una crisi di rigetto dei calciatori, chiamati a stravolgere radicalmente il loro modo di giocare. Anche la dirigenza, in quel fallimento, ebbe delle responsabilità pesanti: avendo degli obiettivi strategici precisi, avrebbe dovuto condividerli con Delneri prima di conferirgli l’incarico. «C’è stata poca adattabilità da entrambe le parti ed è stato meglio lasciarsi prima dell’inizio»: questa dichiarazione, rilasciata dallo stesso Delneri molti anni dopo quell’esperienza, riassume al meglio un rapporto durato due mesi e seguito a stretto giro dall’approdo alla Roma disastrata della stagione 2004-05. I giallorossi, a fine settembre, sono già alla nomina del terzo allenatore, dopo le dimissioni presentate, per motivi diversi, prima da Cesare Prandelli e poi da Rudi Voeller. Delneri si trova ad affrontare un’altra situazione critica, nella quale il mancato feeling con lo spogliatoio dipende forse più dalla debolezza societaria che non da questioni di carattere tecnico-tattico. Per la Roma è un’annata maledetta, nella quale tutto va per il verso sbagliato, dagli infortuni che colpiscono molti giocatori agli episodi (come la monetina che colpisce l’arbitro Frisk che porta a una sconfitta a tavolino e a giocare due partite a porte chiuse in Champions League) che non permettono mai alla squadra di valorizzare un potenziale offensivo di altissima qualità. Delneri riesce a reggere meno di sei mesi prima di rassegnare le dimissioni e lasciare a Bruno Conti il timone di una nave sciagurata.

 

Paulo III

 

Il terzo allenatore ad aver guidato Porto e Roma è Paulo Fonseca. Arriva nella Capitale nell’estate del 2019, con la squadra pronta a voltare pagina dopo il collasso del progetto Monchi-Di Francesco. Il portoghese non è molto conosciuto in Italia. Ha avuto modo di mettersi in luce con gli ucraini dello Shakhtar Donetsk, con i quali ha vinto tre campionati, tre Coppe nazionali e una Supercoppa. La sua militanza con i lusitani risale alla stagione 2013-14: esperienza non eccelsa, a dire il vero, nonostante fosse iniziata bene con l’affermazione nella Supercoppa nazionale ottenuta a spese del Vitória Guimarães. Fonseca venne esonerato a marzo per via dei risultati non soddisfacenti. A Roma si presenta dichiarando di voler proporre un calcio dominante, i cui capisaldi sono la costruzione dal basso, il possesso palla e la capacità di gestione del ritmo partita. Idee coraggiose che, però, si scontrano presto con la realtà del nostro calcio, che spinge Fonseca a rivedere in termini più accorti i suoi principi di gioco. Nelle due stagioni romane colleziona un quinto e un settimo posto oltre a una semifinale di Europa League. Dopo l’arrivo dei Friedkin lascia il testimone a José Mourinho: un passaggio che ribalta la Roma in ogni aspetto, dall’approccio comunicativo al modo di giocare. Dalla signorilità nelle dichiarazioni di Paulo all’aggressività ostentata di José; dal tentativo di proporre una squadra dal profilo offensivo ai ritmi lenti e al blocco basso che lo Special One ritiene più adatti alle caratteristiche dei giocatori, il club di Trigoria cambia completamente fisionomia. Il rendimento in campionato rimane in linea con quello delle stagioni precedenti mentre in Europa i giallorossi vincono la prima edizione della Conference League e, nel 2023, perdono ai rigori contro il Siviglia una finale di Europa League avvelenata dalle discutibili decisioni dell’arbitro Taylor. Mourinho diventa l’alfiere di una tifoseria di cui riesce con facilità a raggiungere l’anima: ridesta entusiasmi sopiti, riporta l’Olimpico a riempirsi, cerca di stanare a gran voce una proprietà silente della quale si cominciano a non capire più bene gli obiettivi. Quando, nel gennaio 2024, viene esonerato, buona parte del pubblico romanista avverte i sintomi di una sindrome dell’abbandono che molti, ancora oggi, non hanno superato.

 

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