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Il 13 marzo 1955 nasce uno dei talenti più limpidi del nostro calcio: strappato al baseball, il 7 giallorosso ha vinto un mondiale, fatto grande la sua Roma e disegnato sul campo ghirigori come versi in una poesia
Bruno, Nettuno e centomila: ci perdonerà il maestro Pirandello, se stravolgiamo il titolo di uno dei suoi capolavori; del resto, anche il dribbling è un paradosso: percorso che scioglie i suoi nodi proprio quando agli occhi degli altri sembra farsi più complicato e tortuoso; della palla che scompare proprio quando ti sembra che il piede del difensore abbia azzeccato il tempo per spegnere sul nascere un tiro che improvvisamente non c'è più, nascosto agli occhi e alle caviglie degli altri.
Per questo lui, mancino, ha ribaltato il mondo partendo dal lato opposto: perché per ogni volta in cui un marcatore ha pensato di avergli chiuso uno spazio, lui rientrando sul sinistro gli ha fatto capire che, al contrario, gli aveva spalancato un palcoscenico.
È una caratteristica del segno dei Pesci, il non voler procedere in linea retta, un po' come la nostra cronologia mentre raccontiamo lui, venuto alla luce il 13 marzo del 1955, a Nettuno, dove le onde schiaffeggiano leggende millenarie e dove si erano insediati i Pelasgi, antichissimo popolo di origine greca la cui presenza caratterizzò anche le coste meridionali del Lazio. Così lo chiamava Gianni Brera: “Il mio pelasgio” dopo aver paragonato i suoi giochi di prestigio sulla fascia alle morbide evoluzioni che i gatti fanno compiere ai gomitoli di lana. La mancata linea retta di un destino è anche quella di un calcio di rigore troppo alto sopra la traversa, con la sua curva attonita dietro, il 30 maggio del 1984 contro il Liverpool: meglio che a sbagliare sia un figlio prediletto, quando si deve patire un dolore così grande; cosa volete che sia la mancata firma su un pallone banale al cospetto di tutti i geroglifici delle sue serpentine, mai decifrati dalle marcature avversarie?
Il Dio Nettuno lo avrebbe voluto col cappellino da baseball, la mazza e le basi da conquistare. Un'erba diversa meritava la sua corsa, un prato di calci che quasi mai lo avrebbero preso e di contrasti abortiti nel vuoto di una sua magia.
A uno dei Pesci non puoi chiedere di osservare il prima e il dopo degli altri segni, quindi capita che possa vincere prima la Coppa del Mondo, quella del 1982, poi lo scudetto, quello del 1983 che il popolo della Roma aspettava da quarantun anni.
Così come può capitare che il suo gol più bello lo realizzi con "l'altro" piede, al Mondiale spagnolo del 1982. È il 18 giugno, l'Italia di Enzo Bearzot affronta il Perù a Vigo. Al minuto diciannove lui, appostato qualche metro indietro rispetto alla lunetta dell'area di rigore, riceve palla in orizzontale dal lato sinistro: il marcatore che prontamente esce per impedirgli la conclusione, non capirà - del resto facciamo fatica, ogni volta che lo rivediamo, a capirlo noi - quanto gli accade; una finta a cui l'occhio di chi guarda non riesce a stare appresso, un dribbling con il tacco che incenerisce il malcapitato e prende per mano il ricordo di Garrincha; a quel punto sul lato destro si spalanca l'angolo per il tiro. Ma non è il suo piede. Non era? Sono le ovvie domande degli umani, dove giocano gli dei certi dubbi non hanno luogo: parte un fendente di destro, con traiettoria leggermente a uscire, che Quiroga può soltanto ammirare, ammesso che riesca a vederlo.
In quel Mondiale, da livello tecnico mai raggiunto da nessun'altra rassegna iridata, lui s'era meritato il soprannome di "Marazico" e, fino alla finale contro i tedeschi dell'Ovest, non fu banalmente un valore aggiunto per Bearzot: fu l'uomo in più, come quel titolo di Sorrentino.
Il 10 febbraio del 1974 il Barone Liedholm lo aveva fatto esordire nella massima serie, con la maglia della Roma, contro il Toro di Paolino Pulici. Quella parte del suo viaggio tinto di giallorosso terminerà il 23 maggio del 1991; per l'Olimpico un delirio d'amore e d'immediata nostalgia. Il saluto di un fuoriclasse come pochi altri se ne sarebbero visti in futuro: lo stadio lo sa già e comincia a rimpiangerlo sin dal momento in cui si gode i suoi ultimi, inimitabili ghirigori a pelo d'erba. A rendere ancor più speciale quella serata, un particolare che testimonia l'unicità dei tifosi della Roma: soltanto ventiquattrore prima sullo stesso terreno si era disputata la finale di ritorno della Coppa Uefa, tra Roma e Inter, con il trofeo alla fine alzato dai nerazzurri. La sera dopo una finale europea, persa tra frustrazioni, polemiche per l'arbitraggio e un enorme rammarico, il pubblico era leggermente più numeroso.
I tifosi della Roma e della Nazionale italiana che l'hanno visto e vissuto, provano la medesima sensazione: ci ha presi per mano e portati a spasso lungo una fascia infinita, ragazzini per sempre ogni volta che ci torna in mente la palla che riappariva là dove non pensavamo che fosse.
L'essenziale, diceva il piccolo principe, è invisibile agli occhi. Senza saperlo, stava parlando di un dribbling di Bruno Conti. Anzi, Brunoconti, tutto attaccato, senza voler conoscere i confini del nome e del cognome: quattro sillabe, settant'anni, il tempo di una finta.
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