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Il 5 novembre 1997 nacque una stella. Già seguito dagli scout del Milan e di mezza Europa, l’ucraino sfoggiò in mondovisione il suo talento cristallino: tripletta e Barça fuori dalla Champions
Non sappiamo se quella notte fosse seduto sulle tribune del Camp Nou, se se ne stesse comodo sul divano di casa sorseggiando una birra gelata, o fosse in giro a festeggiare con famiglia e amici. Di certo ci piace pensare che la sera del 5 novembre 1997 Oleh Blochin abbia trascorso la cena del suo compleanno – spegneva 45 candeline – facendo il tifo per un biondo ragazzo, che in mondovisione stava facendo impazzire Sergi Barjuan, uno dei terzini più rapidi al mondo, colonna portante della difesa del Barça e della nazionale spagnola. Ma che già al terzo della ripresa di quel Barcellona-Dinamo Kiev si ritrova intorbidato nel tunnel del Camp Nou, accompagnato da un lontano brusio quasi impercettibile, perché il biondo ragazzo aveva appena ammutolito il popolo catalano. Sergi non ne poteva più: guardando il replay del fallo di mano che gli costa il secondo giallo, si nota come lo spagnolo cerchi volontariamente il pallone e come, con una deviazione degna del miglior Vitor Baia – certamente non “del cercatore di farfalle” che proprio quella sera rientrava in campo dopo quattro mesi –, interrompa il lancio diretto verso lo spazio in cui si sarebbe infilato il numero 10…
Oleh Blochin è forse l’unico Pallone d’Oro della storia a poter vantare un sosia addirittura più famoso di lui, almeno visivamente. La somiglianza tra l’attore americano Willem Dafoe (il sergente Elias Grodin di “Platoon”) e il figlio d’oro d’Ucraina che scrisse la storia della nazionale sovietica è imbarazzante. Ma soprattutto è il più grande calciatore ucraino della storia. Almeno prima di quel 5 novembre al Camp Nou.
In quella notte nasce una stella. O sarebbe più corretto affermare che “si palesa al grande pubblico una stella”, dato che in Ucraina rappresenta già la speranza per il futuro e non è oggetto misterioso nemmeno per gli scout. Quel biondo dalla pelle chiarissima e lo sguardo glaciale, che corre con eleganza mentre la maglia numero 10 gli si appiccica alla schiena ha 21 anni, e si chiama Andriy Shevchenko.
Sheva è l’erede designato di Blochin. Come Oleh viene allattato fin da piccolo – entrambi entrarono all’età di 10 anni – dai competenti mister nelle giovanili della Dinamo Kiev; come per il Pallone d’Oro 1975 sull’ascesa di Sheva si posa lo sguardo intransigente di Valeriy Lobanovskyi. A dire il vero Andriy si ispirava a Ihor Bjelanov – altro talento ucraino premiato da France Football nel 1986 –, ma l’accostamento a Blochin risulta forse più azzeccato, anche senza considerare la data del compleanno. Su questo il Colonnello avrebbe potuto esprimere un giudizio più obiettivo, visto che li ha allenati tutti e tre.
Quella sera a comporre la coppia d’attacco con Sheva c’è Sergiy Rebrov, altro talentuosissimo del calcio ucraino che segna col pallottoliere, ma che in futuro troverà fortuna esclusivamente in Nazionale, rimanendo eterno incompiuto al di fuori dei confini ucraini.
Sergi, Couto, Reiziger, Ferrer. Questa la retroguardia scelta da Van Gaal. Schevchenko parte quasi sempre dalla zona destra. A metà primo tempo prende palla e punta verso il centro: li salta tutti, uno dopo l’altro come birilli. Si ritrova sulla sinistra, uno sguardo avanti e lo scarico all’indietro per poi tornare a sfiancare Sergi. Quello che si esibisce davanti ai 55mila del Camp Nou è un calciatore pronto, che tutta Europa ha ammirato. Non sono tanto i tre gol segnati – i primi due arrivati di testa grazie alle uscite senza senso di Vitor Baia, il terzo su rigore – a rubare l’occhio, quanto la grazia con cui si muove: una corsa soave che in una frazione di secondo può trasformarsi in impeto, scaltrezza, demolente accelerazione improvvisa. Shevchenko corre e ricama con i compagni, ma sa anche pungere come il più velenoso dei serpenti. La trasformazione del rigore che vale il 3-0 al ’44 – guadagnato con una serpentina che manda fuori giri sia Sergi che Couto – è identica a quella con cui qualche anno più tardi condannerà la Juventus a Manchester: sguardo concentrato, occhiatina all’arbitro, palla a destra e portiere a sinistra.
Il Barcellona crolla in casa, viene “goleado” 4-0; subisce la sconfitta più umiliante di sempre nella competizione e abbandona la Champions dopo sole quattro partite. La Dinamo Kiev vincerà il girone e uscirà ai quarti sconfitta dalla Juve.
Nel frattempo su Shevchenko c’è il “controllo” di Ariedo Braida e Adriano Galliani, pronti a portarlo al Milan con un’offerta già sul piatto da 18 milioni di dollari. Dopo quella sera non basteranno: ne serviranno 25 per battere la concorrenza di tutti gli altri.
BARCELLONA (4-3-3): Baia; Ferrer, Reiziger, Couto, Sergi; Ciric, Celades, Garcia (26’ st Nadal); Figo, Giovanni (8’ st Amor), Rivaldo. A DISP.: Busquets, Puyol. ALL.: Van Gaal.
DINAMO KIEV (4-4-2): Shovkovskyi; Luzhnyi (14’ st Volosyanko), Vashchuk, Golovko, Dmytrulin; Kalitvintsev (1’ st Maksymov), Gusin (15’ st Mykhaylenko), Khatskevich, Kosovskyi; Shevchenko, Rebrov. A DISP.: Kernozenko, Bezhenar, Radchenko, Belkevich. ALL.: Lobanovskyi.
ARBITRO: Hugh Dallas (Scozia). MARCATORI: 9’, 32’ e 44’ (rig.) Shevchenko, 34’ st Rebrov.
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