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Il 16 novembre 1892 nasceva uno dei pionieri dell'automobilismo. Campione memorabile, corse dal 1920 al 1950. Il destino gli regalò grande fama e tanto dolore
Una nuvola di polvere, per cominciare: una di quelle che non vedremo mai nelle moderne gare d’automobile; un contrasto tra l’anima rurale dell’Italia pre motoristica e il frastuono dei pistoni che sembrava provenire dal futuro; un’anomalia magica che la maggior parte di noi può soltanto immaginare, pensandola al tempo stesso inimmaginabile. Il bosco ai lati, la campagna spalancata prima e dopo il rumore, il cielo che annusava le prime esalazioni arroganti di carburante. Più che piste, strade: a volte graffianti di ghiaia, proiettili di brecciolino contro gli spettatori più vicini. Il primo ponte verso il futuro, le strade: un tramite, tra luoghi separati da distanze che sembrano incolmabili, in un’Italia piena di venature antiche ma del tutto senza arterie ancora; ancora fatta quasi solamente di province, negli anni tra le due guerre mondiali.
L’automobile, simbolo per eccellenza dell’avvenire; genere di lusso, eppure inquilina privilegiata dell’immaginario popolare. E l’auto da corsa come quintessenza di un concetto, di un Paese di là da venire. Già musa ispiratrice di un’ode di Marinetti, che nei suoi tubi di scarico vide la proiezione di serpenti dall’alito esplosivo. Il grido del motore improvvisamente sembrava incrinare, per poi mandarlo in frantumi, un ritmo intrecciato nei secoli, scandito da zoccoli e pedali.
Un mantovano esile, scheletrico anche nel sorriso ostentato, stava aggrappato al congegno: direttore d’orchestra il cui cuore batteva all’unisono con lo stantuffo dentro i cilindri, quando comandava alla macchina il capogiro di una sbandata di cui soltanto lui sapeva tenere le redini, per regalarle un ingresso da sposa in ogni rettilineo.
La prima corsa in motocicletta nel 1920, l’ultima in auto nel 1950: trent’anni, lungo i quali fu come se qualcuno avesse compresso un secolo abbondante. Tazio Nuvolari, nato a Castel d’Ario il 16 novembre del 1892, ci ha forse infilato più tempo ancora, sicuramente più vite, per ogni volta che si è giocato la sua. Facendo decollare la monoposto sulle gobbe dei dossi, per grattare i decimi di secondo ovunque fosse possibile; guidando di notte a fari spenti, durate una Mille Miglia, per tallonare Varzi senza che quest’ultimo potesse accorgersene; lanciando ogni volta un assalto col quale sembrava dover sfuggire al demone di una disperazione di fronte alla quale la morte sarebbe sembrata un sollievo: aveva nel frattempo perso due figlie, entrambe quando avevano diciotto anni, in tutti e due i casi per malattia. Cosa sono, al confronto, i tornanti del vecchio, interminabile Nürburgring? Solo asfalto da ingoiare, alla faccia dei tedeschi e di Hitler, che nel 1935 non avevano nemmeno previsto che a essere premiato potesse essere un italiano. La bandiera fu lui a portarsela, da casa, quasi scintillante contro il fondo grigio delle monoposto germaniche sconfitte.
Che lo si consideri una leggenda, è quantomeno ovvio; eppure non saremo in grado mai di comprendere del tutto quanto davvero lo sia stato, e soprattutto come. Su una specie di carlinga terrestre, con in mano un volante che era sottile e ampio quasi una ruota di bicicletta. Un cavaliere protetto, si fa per dire, soltanto da un elmo di pelle morbida, da un paio d’occhialoni stile aviatore. È in una canzone di Lucio Dalla, in un meraviglioso modello di cronografo della Eberhard, nella tartaruga che come simbolo paradossale volle donargli Gabriele D’Annunzio. E nemmeno questo rende l’idea, di cosa rappresentasse ogni volta che spariva nell’abitacolo senza cinture di quegli squali senza pinne che sapevano ruggire senza poter promettere altro che una velocità a tratti indomabile. Bozzoli essenziali, metallo severo, gelido; equilibrio fragile di sospensioni, di raggi esili come le sue braccia aggrappate allo sterzo.
Forse non chiedeva altro che di concludere i suoi giorni con quel frastuono assordante nelle orecchie, Tazio Nuvolari; invece se n’è andato nel suo letto, a sessanta anni soltanto, un giorno di agosto di sessantanove anni fa. La prima e unica cosa da uomo comune, in un’esistenza in cui tutto ha gridato, di possenti accelerazioni o di insopprimibile dolore.
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