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Bavarese doc, interpretò straordinariamente il ruolo di libero. Due volte Pallone d’Oro, ottenne innumerevoli trofei. Vinse il mondiale sia da calciatore che da allenatore
E così è calato definitivamente il sipario su un altro re del calcio di tutti i tempi. Dopo Cruijff, Maradona e Pelè, anche Franz Beckenbauer ha spento il suo ultimo attimo di vita, lasciando ai posteri l’onere e il piacere di tramandarne le gesta. Superlative, a dire il vero: degne dei ringraziamenti di chi il suo calcio l’ha visto e vissuto non come un “mero” sport ma come attimo di grazia capace di veicolare emozioni da custodire nell’album dei ricordi più puri.
Come quello che lega noi italiani alla notte del 17 giugno 1970, quella che allo stadio Azteca di Città del Messico vide la nostra Nazionale e quella della Germania Ovest dare vita a uno degli scontri più epici della storia. Quando Nando Martellini divenne un Omero italico, nell’abbaglio di quella vittoria l’unico sconfitto a uscire vincitore sembrò proprio lui, Franz Beckenbauer (che il sommo Brera raccontò così: «Beckenbauer con braccio al collo fa tenerezza ai sentimenti (a mi, nanca un po’»), con quella fasciatura che gli teneva stretto il braccio al busto senza impedirgli di dirigere il gioco della squadra e gli animi dei compagni. Nella delusione, si aggrapparono a lui per intravedere quei successi ancora nascosti in un futuro che avrebbe portato la Germania Ovest ad essere la squadra più forte del successivo decennio. Solo la sua personalità, in quel momento, poteva renderlo faro di una speranza che si alimentava solo del suo modo di essere. Perché, fino al 1970, Kaiser Franz (come venne inevitabilmente soprannominato per le sue doti di leadership) con la Mannschaft aveva ottenuto più dolori che gioie: il gol di Hurst nella finale mondiale del 1966 contro l’Inghilterra, lo scivolone nelle qualificazioni per Euro ’68 a Tirana nel 1967 (quando i bianchi, non riuscendo a battere l’Albania, non ottennero il passaggio alla fase finale del torneo) ed el partido del siglo contro l’Italia in Messico gli avevano impedito di sollevare al cielo un trofeo che tra le sue mani avrebbe trovato un degno possessore.
Quando tra i calciatori si accenna alla categoria dei predestinati, Beckenbauer ne diventa il prototipo: elegante, autorevole, intelligente, tecnicamente dotato e capace di vedere il gioco prima degli altri e oltre le capacità degli altri. Il Kaiser spese i primi anni della carriera nel settore intermedio del campo, apprendendo lucidamente le due fasi del gioco. Una volta arretrato sulla linea difensiva, interpretò il ruolo con intelligenza, sapendo essere deciso nelle chiusure e capace di impostare le azioni con la medesima efficacia.
Bavarese doc, essendo nato a Monaco di Baviera l’11 settembre 1945, Beckenbauer crebbe nelle giovanili del Bayern con cui, tra il 1964 e il 1977, vinse tre Coppe dei Campioni, una Coppa Intercontinentale, una Coppa delle Coppe, quattro campionati e quattro coppe di Germania. Con la Nazionale, dopo le iniziali delusioni, si affermò agli Europei del 1972 e al mondiale del 1974, battendo in finale l’Olanda del calcio totale e del suo profeta Cruijff, mentre nel 1976 soltanto i calci di rigore gli impedirono di bissare il successo europeo. Si consolò vincendo nuovamente il Pallone d’Oro, già conquistato quattro anni prima.
Insieme ad altri campioni sul viale del tramonto (ma lui lo era davvero?) partecipò al primo tentativo di far decollare il soccer negli USA, andando ai Cosmos di New York sul finire degli anni Settanta. Vinse tre campionati nordamericani che non gli bastarono a placare la voglia di competere ai massimi livelli, che lo spinse a rientrare in Germania per vestire la maglia dell’Amburgo, col quale conseguì nuovamente la Meisterschale nel 1982 prima di tornare a New York per spendere l’ultima stagione da calciatore.
Appese le scarpe al chiodo, non poteva non esprimersi al meglio anche come allenatore. Pure in panchina, però, prima di assaporare il piacere della gloria dovette conoscere i morsi della sconfitta, ritrovando sul suo percorso luoghi e avversari che aveva già incontrato calzando gli scarpini. Evidentemente il Messico e l’Azteca non erano territori fortunati per lui: nel 1986 vi perse la finale mondiale contro l’Argentina di Maradona. E, due anni più tardi, non riuscì a essere profeta in patria come gli era accaduto nel 1974, perché agli Europei in Germania la sua corsa si fermò in semifinale contro quell’Olanda sulla cui panchina sedeva, nel 1988 come quattordici anni prima, il “santone” Rinus Michels. Nel 1990 fu Roma a vederlo stringere nuovamente la Coppa più bella del mondo: privato della vittoria dell’Italia, l’Olimpico lasciò alle sue mani l’onore di sollevarla verso il cielo caldo e azzurro dell’estate italiana. È stato l’unico ad aver conquistato il titolo mondiale sia da calciatore che da tecnico, insieme al francese Didier Deschamps e al brasiliano Mario Zagallo. Che, anch’egli scomparso da poco, lo avrà probabilmente accolto a braccia aperte per ricominciare a giocare: perché il loro calcio era troppo bello per non trovare posto anche nell’aldilà.
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