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Primo calciatore gallese ad approdare nel campionato italiano, nel suo quinquennio juventino lasciò in dote alla Signora più di cento gol e cinque trofei
Se, per assurdo, avessero eretto una colonnina di cemento armato all’istante al centro di una qualche area di rigore, per impedirgli di avventarsi verso la porta, John Charles l’avrebbe abbattuta con una spallata; poi, avrebbe chiesto scusa anche a quella, così come più di una volta fece con il suo marcatore di turno, fino anche a trascurare lo sviluppo dell’azione. Per questo non si capì mai se fosse più gigante o più buono, e quale in realtà fosse l’aggettivo, quale il sostantivo, come in una pellicola di Sergio Leone dove i protagonisti avevano la faccia lorda alla stessa maniera di quella che aveva lui quando tornava su dalla miniera, avendo all’inizio seguito le orme paterne: del resto, c’era poco altro da sperare, o da augurarsi a Swansea, Galles, per un ragazzino nato in un sobborgo della città il 27 dicembre del 1931. I bicipiti, presto forgiati dal trasporto dei carrelli nel sottosuolo, furono buoni anche per il ring: dieci incontri, dieci vittorie; ma sempre con quella paura di far troppo male a chi se lo trovava di fronte. Meglio quell’area di rigore di cui sopra, allora, all’inizio frequentata anche da difensore, con la statura e la vastità toracica che si ritrovava. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la sua culla sportiva si chiama Leeds e nel campionato inglese sboccia come uomo, diventa realmente calciatore, quindi si scopre attaccante dirompente: alla fine saranno oltre 150 reti, in più di 300 partite. Dal punto di vista atletico, per il football degli anni Cinquanta, anche per quello britannico, è un atleta futuribile, visto lo strapotere atletico, che fa il paio con una correttezza e un rispetto delle regole e degli avversari quasi smodato, viste anche le provocazioni che riceve da chi tenta di arginarne la forza.
Estate 1957: una Juventus da rinnovare, con al timone il “Dottore”, un ventitrenne Umberto Agnelli, dopo campionati che definire deludenti è un eufemismo. Per 110 milioni di lire arriva John Charles, nel pieno del suo fulgore atletico, assieme a un certo Omar Sivori, prelevato dal River Plate per 180 milioni. Se davvero esistesse un’età dell’oro nella storia della Juventus, quasi certamente sarebbe la loro, quella del “Trio Magico”, ossia Charles, Sivori e Giampiero Boniperti. Tre scudetti, due Coppe Italia, più di cento reti messe a segno: sono ciò che resta nei numeri del suo quinquennio bianconero, del suo impatto col calcio latino così malizioso e spesso perfido, che non smetterà mai di sorprendersi della condotta esemplare di Charles, anche quando, la maggior parte delle volte in verità, l’area di rigore sarà un ginepraio di sputi, insulti e colpi proibiti. Se con i suoi marcatori non riusciva a essere cattivo, anche perché gli bastava essere strapotente, addirittura remissivo diventava nei confronti di sua moglie Peggy: fu lei a decidere, nel 1962, che era tempo di tornare in Inghilterra, perché lì sarebbero dovuti crescere i ragazzi, non in Italia, dove il gigante buono, o il buono gigante se preferite, aveva già lasciato il cuore, prima ancora di fare le valigie, come confessò in lacrime a Sivori e a Boniperti.
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