Viaggio nella tattica: Europei 1984, 1988, 1992

Viaggio nella tattica: Europei 1984, 1988, 1992

Tre edizioni che hanno segnato un'era: in Francia e in Germania si è assistito alla fine dell'era del calcio totale attraverso l'esaltazione dei singoli (Platini e Van Basten su tutti). In Svezia si verificò una delle sorprese più incredibili della storia del torneo 

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Proseguiamo la nostra analisi sull’evoluzione tattica e strategica delle squadre partecipanti agli europei di calcio parlando delle edizioni che vanno dal 1984 al 1992.

 

Francia 1984: oltre Platini c’è di più

 

Gli Europei di Francia 1984 rimangono una delle edizioni “storiche” di questa manifestazione, in quanto, nell’immaginario collettivo, sono passati agli annali come gli Europei di Michel Platini.

Dopo più circa un decennio di calcio atletico collettivista, nell’estate del 1984 il mondo del calcio riscopre il “grande singolo”, capace di portare quasi da solo la propria squadra alla vittoria. È un po’ la metafora degli Anni Ottanta, il decennio del riflusso e dell’edonismo reaganiano, che ha sancito la fine delle utopie e delle lotte collettive di quello precedente; in un’Italia ormai sempre più centro calcistico d’Europa questo fenomeno viene rappresentato al meglio dal craxismo e dalla “Milano da Bere”. Gli Europei di Francia 1984 possono così essere considerati l’antipasto di quanto accadrà in Messico due estati dopo quando Diego Armando Maradona condurrà praticamente da solo la sua Argentina al trionfo mondiale. Tuttavia, sarebbe ingeneroso definire la selezione transalpina di Michel Hidalgo come una squadra totalmente dipendente dal fuoriclasse della Juventus: quella Francia infatti possedeva un centrocampo da favola (il famoso “carré magique”), paragonabile a quello del Brasile del 1982 per cifra tecnica, con Luis Fernández perno basso davanti alla difesa, Tigana e Giresse intermedi e Platini a suggerire le punte Lacombe e Bellone.

Al secondo posto giunge la Spagna, arrivata un po’ a sorpresa alla finalissima, dopo decenni davvero bui. Le Furie Rosse di Miguel Muñoz praticano un calcio ancora lontanissimo da quello successivo dell’era tiki-taka: si schierano con un 4-4-2 molto fisico e quadrato con marcature a uomo in difesa e a centrocampo, anche se non rigide e dogmatiche come quelle italiane, dove Camacho gioca spesso in marcatura sulla mezzapunta avversaria più pericolosa (in finale il difensore del Real è sulle costole di Platini). Da questa edizione non si disputa più la finalina di consolazione, così consideriamo terze a pari merito le due grandi sorprese della rassegna: il Portogallo e la Danimarca. La selezione lusitana, allenata da Fernando Cabrita, si schiera con uno strano 4-5-1 asimmetrico. La difesa, schierata secondo i crismi della zona pura, viene protetta dal metodista Pacheco con Sousa che gioca in posizione più avanzata, sulla destra Frasco agisce da equilibratore mentre a sinistra Chalana è un vero e proprio fantasista aggiunto; in attacco restano così la torre Jordão e la mezzapunta Diamantino Miranda. Infine, ultima, ma non meno importante, la Danimarca allenata dal tedesco Sepp Piontek: i danesi sono un collettivo che pratica un calcio atletico e spumeggiante secondo i crismi di un 4-4-2 molto dinamico a zona-mista in cui il libero Morten Olsen avanza spesso a centrocampo come regista aggiunto; in attacco le due punte mobili Michael Laudrup-Elkjær non danno mai punti di riferimento.

 

Germania 1988: Olanda, arancia poco meccanica, ma individualista

 

Quella di Germania 1988 è stata un’altra edizione fausta degli europei di calcio, infatti, anche questa kermesse si conferma in piena linea con lo spirito del tempo: ancora una volta infatti trionfa una squadra (l’Olanda) che di fatto viene sospinta alla vittoria finale dai gol e dalle giocate di un fuoriclasse: Marco Van Basten. La finalissima di Monaco di Baviera vede infatti trionfare un’Olanda abbastanza lontana dalla sua versione “cicala” del decennio precedente, su un’Unione Sovietica di Valerij Lobanovs'kyj che, nonostante si dicesse fautrice del “Calcio del Duemila”, era in realtà una Nazionale che fondava le sue radici sugli ideali collettivisti degli anni ’60 e ‘70, semplicemente portati ad estreme conseguenze. L’Olanda allenata dal “papà” del totaalvoetball Rinus Michels, si schiera con un 4-4-2 sghembo, abbastanza fluido nella sua interpretazione, che rappresenta una sorta di compromesso tra l’adorato (da Michels e dal suo discepolo Cruijff) 3-4-3 a triangoli concentrici ed il più classico 4-4-2 in linea, modulo egemone nell’Eredivisie di allora. Nella linea difensiva, infatti, Rijkaard sale spesso in appoggio al centrocampo, formando un rombo con i due mediani Wouters e Mühren e la seconda punta Gullit. In fase di non possesso invece l’Olanda marca spesso a uomo (anche se in maniera molto elastica) con Rijkaard che funge da stopper e van Aerle da secondo marcatore mentre il terzino sinistro van Tiggelen sale spesso in appoggio al centrocampo. Ne esce fuori un’arancia poco meccanica e molto individualista che viene trascinata alla vittoria finale dal suo bomber.

L’ultima edizione agli europei di calcio dell’Unione Sovietica (di fatto Ucraina perché almeno sette undicesimi di questa squadra provenivano da Kiev e dintorni), invece utilizza un 4-4-2, anche se interpretato in maniera ancora più radicale rispetto a quanto fatto dagli orange. Anche nella selezione sovietica la linea a quattro in difesa è solo teorica perché Chidijatullin gioca da ultimo uomo staccato mentre Kuznezov funge da marcatore sul centravanti avversario, ma allo stesso tempo anche da regista arretrato della squadra; i due terzini invece (Dem"janenko e Rats), oltre che fluidificare sulla loro fascia di pertinenza, entrano spesso dentro al campo per impostare il gioco. A centrocampo ed in attacco l’URSS non dà mai punti di riferimento con Protasov e Belanov che fungono da terminali mobili e il talentuoso Zavarov che spesso parte dalla fascia accentrandosi. Infine, in fase di interdizione, la nazionale di Lobanovs'kyj è sempre brava a recuperare palla con un pressing collettivo orchestrato alla perfezione. Olanda e Unione Sovietica hanno sconfitto in semifinale due big come i padroni di casa della Germania Ovest e l’Italia. La Mannschaft di Franz Beckenbauer è una nazionale di muscoli ed acciaio che si schiera con il classico 3-5-2 alla tedesca con Brehme che fluidifica sulla fascia destra e Rolff che sulla fascia opposta tende a tenere più la posizione o a giocare per vie centrali, con Matthäus perno centrale del campo. In attacco i due panzer Völler e Klinsmann sono sostenuti alle spalle da Mill. Infine l’Italia, rinnovata da Azeglio Vicini, si schiera anch’essa con un 3-5-2 molto più fluido di quello tedesco, che spesso si trasforma in un moderno 3-4-2-1. In difesa, infatti, Bergomi e Ferri sono i marcatori fissi con Baresi che gioca libero staccato, mentre il terzino sinistro Maldini staziona sempre in appoggio al centrocampo con Ancelotti e De Napoli che coprono la regia di Giannini. In attacco i due “gemelli” Vialli e Mancini sono assistiti spesso dai movimenti a rientrare del tornante Donadoni che, quando si accentra, viene coperto sulla destra dall’allargamento di De Napoli e dall’arretramento in mezzo al campo di Giannini. Tra le restanti otto squadre partecipanti alla fase finale dell’Europeo va ricordata la prima partecipazione dell’Eire di Jack Charlton, squadra che pratica un 4-4-2 molto quadrato ed arcigno, con un uso sistematico di lanci lunghi e cross. Grazie a questa tattica gli irlandesi battono gli odiati inglesi (delusione assoluta dell’Europeo) e danno filo da torcere alle due finaliste Olanda e Unione Sovietica.

 

Svezia 1992: la Danimarca trionfa senza la “stella”

 

Dopo due edizioni decisamente fortunate, quella di Svezia 1992 si rivela una kermesse (l’ultima a otto squadre suddivise in due gironi) in tono minore, dove succede veramente l’imponderabile. Infatti, la nazionale che alla vigilia partiva con i favori del pronostico (la Jugoslavia) rinuncia a partire per Stoccolma a dieci giorni dall’inizio dell’europeo perché travolta dalla guerra civile. Al posto degli jugoslavi viene chiamata la Danimarca (seconda nello stesso girone di qualificazione) che, nonostante sia una squadra lontana dai fasti degli Anni Ottanta, riesce incredibilmente a trionfare nella vicina Svezia, senza la sua stella Michael Laudrup, che si era in precedenza ritirato dalla nazionale, perché in disaccordo con il gioco troppo difensivista del C.T. Møller Nielsen. La Danimarca non ha più il brio dinamitardo dell’era Piontek: applica un 3-5-2 molto quadrato, che fa affidamento sugli spunti in velocità delle due punte Povlsen e Brian Laudrup (che a differenza del fratello rinuncia a partecipare al torneo). Lo stesso modulo di gioco viene usato dalla Germania, campione del mondo in carica, che, invece, orfana del suo architrave di centrocampo Lothar Matthäus, in questo europeo finisce al secondo posto.

Il nuovo CT Berti Vogts ripropone infatti il sistema di gioco che il suo predecessore Beckenbauer aveva reso vincente a Italia 90, con Häßler spostato sulla trequarti a suggerire le due punte Klinsmann e Riedle. L’Olanda del vecchio Rinus Michels invece mostra agli europei svedesi un sistema di gioco che più ardito non si può, in piena tradizione Ajax: un 3-4-3 con il centrocampo a rombo super offensivo e col tridente Gullit-Van Basten-Roy supportato alle spalle dal trequartista Bergkamp e da Rijkaard, stavolta avanzato nel ruolo di mezzala. Infine la Svezia padrona di casa, giunta anch’essa alle semifinali, è l’unica nazionale tra le “big four” che applica un modulo con la difesa a quattro, ovvero il classico 4-4-2 in linea che fa molto affidamento sul duo di punta formato da Dahlin e Brolin, sostenuti da un’autentica diga di centrocampo formata da due mediani di grande sostanza come Thern ed Ingesson.

 

 

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