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Una vicenda in cui si intreccia un pezzo di Italia: Berlusconi contro Agnelli, il Milan che prende tutto, fondi neri veri o presunti e i miliardi (di lire)
“Spendi spandi spandi spendi effendi” cantava Rino Gaetano. E c'è stata un'epoca in cui Berlusconi spendeva e spandeva come un sultano a ogni calciomercato. Tutto ciò che di più affascinante aveva da offrire la serie A – un campionato che all'epoca era pieno zeppo dei celebri “italiani senza tatuaggi” – lui lo comprava. E nell'estate del 1992 non c'era nulla di più scintillante di Gianluigi Lentini.
In un'Italia che stava andando a gambe all'aria con l'inizio di Mani Pulite e la mafia si organizzava in un partito politico per trasformare la Sicilia in uno stato indipendente, Berlusconi investiva sessantadue miliardi per la nuova stella del Torino. Così, tanto per strapparlo alla Fiat.
Il Milan, nel 1991-92, aveva frantumato record in serie A, ma Berlusconi voleva di più, voleva tutto. Il governo – lo dicono i giornali di quei giorni – chiedeva a operai e pensionati “lacrime e sangue”, come Churchill agli inglesi in piena guerra, ma il calciomercato era un altro discorso, viveva di altre regole e si muoveva su piani diversi.
Quando si parla di tangenti m'immagino sempre ventiquattrore con piccoli lucchetti dorati, due tizi in impermeabile che arrivano con macchine scure nel parcheggio sul retro di un vecchio capannone abbandonato. Sguardi loschi, veloci giochi di mano per passarsi il denaro senza essere visti e poi via verso opposte direzioni. Mai voltarsi indietro.
Nella realtà, si trattava di incontri formali. Che fa rima con banali. Come intermezzo di una cena, a un aperitivo, subito dopo un veloce caffé in ufficio: due uomini di (mal)affari s'incontravano alla luce del sole, discutevano di cifre e percentuali e quindi un solerte portaborse consegnava la somma pattuita. Perlomeno, quando i carabinieri avevano arrestato Giulietto Chiesa, il direttore del Pio Albergo Trivulzio – appena prima che si chiudesse in bagno per provare a gettare nel water trentasette milioni di lire in contanti – il 17 febbraio 1992, era successo più o meno così. Era iniziata “Tangentopoli” ma non erano finite le tangenti. Roma non è stata costruita in un giorno e lì resta.
Borsano e Berlusconi – i rispettivi presidenti di Torino e Milan – erano entrambi legatissimi a Craxi. Entrambi avevano fatto carriera (anche) grazie all'appoggio del segretario del Psi e presidente del Consiglio dall'agosto 1983 all'aprile 1987. Allo stesso modo utilizzavano il calcio come strumento di consenso. C'era la passione, vero, quella non manca mai a questi “grandi uomini dai grandi sogni”, ma c'era anche il calcolo.
Strappare Lentini agli Agnelli a colpi di rialzi, di rilanci, di cifre in continuo aggiornamento nel 1992 è diventato “strategico”, per il Milan. È “strategico” per apparire più grossi, ricchi e potenti del principale rivale di mercato.
E se il giocatore si rifiuta perché teme di giocare poco, di passare in rossonero a fare la riserva di Donadoni e Gullit, già in guerra per il posto l'anno prima, gli si offrono altri miliardi. Tanti da fargli affermare, senza troppi giri di parole: “Sì, l'ho fatto per i soldi”. Così ogni dubbio sfumava.
Già a marzo l'affare era dato per fatto: quattordici miliardi (si diceva dieci in più), di cui sette in anticipo con una penale in caso di mancato accordo, e tutti contenti. Tranne il giocatore che si impunta: troppo l'amore per Torino. Beninteso, non il Torino. La Juve infatti lo sta corteggiando e a una cena si parla di Agnelli e Boniperti pronti a pareggiare le offerte milaniste. «Juve scorretta» sbraita Borsano, che a suo dire ha venduto pure Policano al Napoli, Cravero alla Lazio, Benedetti alla Roma e Bresciani al Cagliari, per racimolare i soldi necessari a fare di Gianluigi Lentini una bandiera. Come ha promesso al suo arrivo, appena tre anni prima. Quando ancora non era stato eletto in Parlamento.
Poi il Milan l'ha coperto di miliardi e pure l'Avvocato si è dovuto ritirare: «Berlusconi è un leader al quale manca il senso dell’equilibrio».
Si è chiuso tutto il 30 giugno 1992, alla chetichella, nei locali della Lega alla presenza di Braida e del suo procuratore Pasqualin. Ma si racconta di un Lentini condotto al tavolo della firma roso dal dubbio, chiuso in macchina a forza – quasi un rapimento – senza mai fermarsi per evitare che fugga. Da tutti quei soldi, forse. Dalle responsabilità che schiacciano, più probabile. O dalle monetine che come Craxi e prima di Craxi il popolo granata gli ha lanciato contro vedendolo uscire dalla sede di largo Vittorio Emanuele.
Il 24 maggio gli ultras avevano portato Lentini in trionfo dopo un 5-2 all'Ascoli e lui aveva giurato fedeltà al Torino. Poco più di un mese dopo, era milanista.
Quando si sa dell'ufficialità, nel capoluogo piemontese scoppiano cinque giorni di disordini. Con gente in strada a urlare slogan tipo “Lentini p*****a l'hai fatto per la grana” e “Se Lentini se ne va bruceremo la città”. E giù a sfasciare macchine, serrande, distruggere vetri e menare spranghe. “Facce da rap” li definisce con un immagine molto anni Novanta l'inviato dell'epoca. Per fortuna in mezzo al caos, si fa male – poco – solo un vigile urbano.
«Sono immorali, gli hanno regalato cinque miliardi e garantito altri trentadue per quattro anni» prova a giustificarsi il presidente Borsano davanti alla folla inferocita. Ma lo guardano e sembra più brutto di Frankenstein. «Mi hanno messo in mezzo» giura. Gli hanno fatto fare la parte dell'ingenuo, secondo i suoi racconti. Ma pure lui avrebbe intascato bene – dieci miliardi di fondi neri, in base a quanto hanno raccontato inchieste ormai prescritte partite da una sua bizzarra autodenuncia ad Antonio Matarrese, presidente Figc – non proprio un prezzo da grande svendita.
I media si domandavano: è calcio o sono solo manovre di alta finanza? Ed è difficile parlare solo di “giuoco”, come facevano altri. Nell'estate 1992, l'opinione pubblica è per metà scandalizzata – ma di quello scandalo dell'agnostico che non comprende il fedele che copre d'oro i suoi idoli – mentre l'altra ammira ancora di più quell'uomo che tutto comprava e al quale, ancora dalle parole dello stesso Lentini che fu prelevato in vacanza con l'elicottero e portato ad Arcore: «Era impossibile dire di no». E lui, difatti, gli ha detto di sì. E non è stato né il primo né l'ultimo.
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